Sanità Pubblica Veterinaria [http://spvet.it/], n. 37, Settembre 2006
CONVEGNO: LA PUBBLICAZIONE SCIENTIFICA IN MEDICINA: TOOLS PER L’AUTORE,
6 luglio 2006 - Aula Magna della Facoltà di Agraria, Borgo XX Giugno 74, Perugia
From Sinai desert to Silicon Valley(1)
Dal deserto del Sinai alla Silicon Valley
Silvio Hénin
silvio.henin [] fastwebnet.it
Summary: The cultural evolution of the society has, as prerequisite, the gather of efficient tools for the transmission of the information.
Undoubtably the first of these has been the complex one psychic system and neuromuscolar that it has allowed the birth of the language and, therefore, the oral, "transversal" and "vertical" transmission, of the ideas.
Following "instruments" will be technological and will set free the man from the scarce reliability of his memory.
The writing, perhaps invented for the first time in the Mesopotamia area (eighth millennium B.C.), allowed to record facts and ideas, but also contributed to a better degree of abstraction of the human thought.
Printing (together to the invention of the paper), from the XV century allowed the exponential increment of circulation of the texts, dropping the costs of production.
Finally, the digital elaboration of the information, along with the telephone and radio transmissions, made possible e-books, the e-journals and the World Wide Web arise, increasing the accessibility of the knowledge for a huge number of people.
Of these technologies will be examined the story, the impact on human culture, advantages and drawbacks.
Tempo presente e tempo passato
sono forse entrambi presenti nel tempo futuro
e il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.
T. S. Eliot
Introduzione
Esaminiamo due testi di medicina che distano nel tempo più di 3500 anni.
Il primo è il “Papiro di Ebers”, un rotolo di 20 metri scritto in caratteri ieratici che risale al XVI secolo a.C. e che può essere considerato la summa del sapere medico dell’epoca (2).
Da questo antico documento estraiamo, ad esempio, il frammento dedicato alla cura dell’asma. Anche il secondo testo tratta della stessa affezione respiratoria, ma è un articolo del 2006, pubblicato nello e-journal
“Environmental Health Perspectives”.
Entrambi i documenti affrontano lo stesso
argomento anche se, ovviamente, in modo molto diverso.
Ma è solo il contenuto che differenzia i due testi? Quanti altri aspetti sono cambiati nella letteratura
scientifica durante i trentasei secoli che li separano?
Proviamo ad elencarne alcuni, dai più ovvi ai meno. Certamente è diversissimo il
supporto fisico: segni di inchiostro su un papiro in un caso e immateriale flusso
di bit nell’altro. Diverso è il metodo di produzione: paziente tracciatura di segni da
parte di uno scriba nel primo, digitazione sulla tastiera del computer nel secondo.
Differenti sono la lingua e la scrittura usata per esprimerla. Diversissimi sono il
linguaggio, la forma e lo stile usati per comunicare.
Inconciliabile è la destinazione dei due testi: segreto da mantenere nella cerchia di pochi adepti il
papiro, espressamente destinato alla più larga comunità possibile l’articolo dell’ejournal.
Ancora diverso è il percorso del prodotto letterario: frutto del lavoro
individuale il primo, risultato di un complesso e organizzato sistema editoriale il
secondo.
Quella che segue è la brevissima – e largamente incompleta - storia delle
innovazioni tecnologiche e di pensiero che hanno portato dal papiro all’e-journal,
delle loro motivazioni e dell’influenza che queste hanno avuto sul modo di
comunicare il sapere scientifico.
La scrittura
Non esiste quasi nessuna civiltà complessa ed organizzata, dall’affermarsi
dell’agricoltura in poi, che non abbia inventato una sua forma di scrittura.
Da ipotesi recenti sembra che persino quella che restava una delle rare eccezioni - la
civiltà incaica delle Ande - potrebbe aver fatto uso delle cordicelle annodate (i
quipu) per rappresentare non solo i numeri, ma anche il linguaggio (3).
Le origini
delle diverse forme di scrittura, tutt’ora oggetto di speculazione, sono certamente
da ricondurre al bisogno di ‘fissare’ o ‘trasmettere’ informazioni, prima che
conoscenze, tramite segni, simboli o pittogrammi. Una delle forme più antiche di
scrittura, il cuneiforme assiro, sarebbe l’evoluzione di un primitivo sistema di
annotazione contabile di derrate alimentari (4).
Altre scritture, come il geroglifico
egizio, i logogrammi cinesi e i glifi dei Maya, sarebbero invece scaturite da finalità
di carattere religioso o di celebrazione di re e governanti umani. Molte delle forme
di scrittura – anche se diffusamente usate ancor oggi - mostrano però limiti nella
loro capacità di rappresentare tutte le potenzialità della lingua parlata, rendendo
ardua la rappresentazione di neologismi o permettendo ambiguità interpretative,
entrambi fattori che incidono negativamente sull’efficienza a trasmettere
contenuti tecnico-scientifici.
L’alfabeto
Fu nel deserto del Sinai, circa nel 1800 a. C. , che la scrittura subì un’evoluzione
sostanziale: una comunità di minatori di lingua semitica, probabilmente schiavi
degli Egiziani, prese a prestito alcuni dei geroglifici dei loro padroni e, invece di
utilizzarli per esprimere intere parole, li usò ciascuno per rappresentare un
diverso suono (fonema) della propria lingua.
Nacque così l’alfabeto proto-sinaitico.
Il vantaggio dell’alfabeto è intuitivo: in una determinata lingua i fonemi sono
relativamente pochi (5), certamente molti meno delle parole, e sono più stabili nel
tempo. Con l’alfabeto qualunque nuova parola, anche mai articolata prima,
poteva essere rappresentata usando sempre gli stessi 20 – 30 segni.
Ciò
garantisce, oltre alle infinite possibilità di seguire l’evoluzione della lingua parlata
anche in ambiti specialistici, la facilità dell’apprendimento e, più in generale, la
rapidità della lettura e della scrittura.
In sostanza, il collegamento tra lingua parlata e lingua scritta non necessita più dell’intermediazione di uno specialista,
ma può essere effettuato con sicurezza da chiunque, previo un breve
apprendimento.
Il proto-sinaitico fu il capostipite di molte altre scritture ‘alfabetiche’ e, per quasi
quattro millenni, continuerà ad evolversi.
Anche se nel nostro alfabeto si possono
riconoscere alcuni dei segni di allora, il loro valore fonetico è cambiato molte volte
per adattarsi alle differenti lingue parlate che si sono volute con esso
rappresentare.
Le tribù semitiche trasmisero l’alfabeto ai Fenici e questi ai Greci,i quali introdussero un’altra fondamentale innovazione: le vocali. L’alfabeto
fenicio, come ancora avviene per l’ebraico e l’arabo moderni, era puramente
consonantico - struttura ereditata dalla scrittura egizia - , ma questa
caratteristica permetteva ambiguità (come se in italiano scrivessimo ‘cono’, ‘cane’
e ‘conio’ allo stesso modo).
I Greci, circa nel IX secolo a.C. , adattarono alcuni
segni del fenicio, inutilizzati nella propria lingua, per rappresentare le vocali. Dai
Greci l’alfabeto si trasmise agli Etruschi e ai Latini.
L’imperialismo della piccola
nazione del Tevere diffuse l’alfabeto romano in tutta l’Europa occidentale e,
quindici secoli più tardi, la colonizzazione europea in Oriente e nel Nuovo Mondo
lo esportò in molte altre regioni (6). Raramente però l’alfabeto latino riuscì a
soppiantare precedenti forme di scrittura, che erano divenute ormai elemento
sostanziale delle culture locali.
I numeri.
Nei documenti tecnico-scientifici la rappresentazione scritta dei numeri è
importante tanto quella delle parole.
Difficile è raccontare la storia delle notazioni
numeriche in così breve spazio - basti pensare che lo storico Georges Ifrah vi
dedica ben seicento pagine nel suo ponderoso “The Universal History of Numbers” (7)
- ma cercherò di concentrarmi sugli aspetti più rilevanti, limitandomi a cenni
sulla cosiddetta ‘notazione posizionale’.
Con questo termine si indica il sistema
che utilizza segni il cui valore dipende, non solo dal segno stesso, ma anche dalla
posizione che questo occupa (ad esempio, nel numero 3378 il primo 3 indica
tremila, mentre il secondo 3, alla sua destra, rappresenta trecento).
La
superiorità della notazione posizionale è evidente: con soli dieci segni diversi (0, 1,
2 ….9) possiamo scrivere qualunque numero; allo stesso modo con cui l’alfabeto,
come abbiamo visto, permette di scrivere qualunque parola con meno di una
trentina di segni.
La notazione posizionale comparve in India a tra il IV e il VI secolo d.C. (8) e fu
adottata dagli arabi, dai quali prese il nome di cifre arabe. (9)
Questi la trasmisero
all’Europa cristiana nell’undicesimo secolo, (10) dove la sua accettazione fu molto
lenta e solo nel Seicento sostituì definitivamente l’inefficiente numerazione
romana. Secondo il matematico Laplace: “ … l’idea di esprimere tutte le quantità
con nove [sic.] cifre, dove si impartisce ad esse sia un valore assoluto, sia uno
dovuto alla posizione è così semplice che la sua stessa semplicità è la ragione per
cui non siamo sufficientemente consci dell’ammirazione che si merita. (11)
Diversamente dall’alfabeto latino, le cifre indiane, hanno preso il posto di quasi
tutte le altre notazioni e in tutto il mondo, forse per la minor valenza culturale dei
numeri rispetto alle parole.
Credo opportuno sottolineare che l’introduzione della notazione posizionale non
solo permise di scrivere i numeri in modo più efficiente e preciso, ma aprì la
strada ad un grande passo avanti della matematica: la fondazione dell’algebra.
Non sembra azzardato affermare che, a volte, il ‘mezzo’ non si limita ad adattarsi
ai fini del momento, ma apre la strada a nuovi e più avanzati obiettivi.
Altri segni.
Analizzando l’articolo scientifico moderno ci accorgiamo che, oltre a lettere e
numeri, si trovano sparsi nel testo molti altri segni, come i simboli matematici ed
i segni di interpunzione.
Entrambi sono raramente presenti nei documenti
precedenti al XV secolo della nostra Era, scientifici o letterari che siano. (12)
Le prime forme di scrittura erano infatti prive di punteggiatura, la cui origine,
databile nel periodo ellenistico di Alessandria e in quello della Roma imperiale,
scaturì principalmente dal bisogno di aiutare il lettore nella lettura pubblica ‘ad
alta voce’ dei testi, come ausilio all’arte della retorica.
Si ricorda che, anche
presso i dotti, i casi di lettura silenziosa erano così rari che il giovane Agostino di
Ippona rimase attonito alla vista di Ambrogio di Milano che leggeva ‘senza
emettere un suono’ (13) Solo con l’invenzione della stampa la punteggiatura divenne
uno standard nella stesura dei testi, assumendo però una funzione
completamente diversa, quella di aiutare a formulare le frasi in modo più logico e
stringato, lasciando meno spazio all’interpretazione.
Più importante per le scienze fu l’invenzione dei simboli matematici. Fino al XV
secolo i libri di geometria e di aritmetica, dai Mesopotamici, agli Arabi ed ai
matematici medievali europei, erano scritti in stile ‘retorico’. Per fare un esempio,
si consideri il seguente periodo (14): “Quando le cose e li cubi si eguagliano al
numero, ridurrai l’equazione a 1 cubo partendo per la quantità delli cubi, poi cuba
la terza parte delle cose, poi quadra metà dil numero e questo suma con il detto
cubato, et la radice di detta summa più la metà del numero fa un binomio et la
radice cuba di tal binomio, men la radice cuba del suo residuo val la cosa”.
E’ arduo riconoscervi quella che oggi chiameremmo ‘risoluzione di un’equazione di
terzo grado’ (15).
I simboli matematici, anche i più elementari come il ‘+’ e il ‘-’, cominciarono ad
apparire solo dopo il XIV secolo (16) e la notazione simbolica algebrica che noi
conosciamo fu impostata da Viète (17) nel Cinquecento e deve la sua
standardizzazione a Cartesio nel suo “Geometrie” del 1637. (18)
Presto l’algebra ‘sincopata’ rimpiazzò completamente quella ‘retorica’.
Scrittura, numeri, interpunzioni e simboli matematici, tutto lentamente contribuì
a migliorare l’efficienza della registrazione e della comunicazione del sapere.
Leggere - e quindi capire - un testo scientifico diventò lentamente più agevole,
almeno tra i dotti, e ci furono meno possibilità di errore interpretativo. Lo scritto
divenne più ‘compatto’, meno ridondante e meno ambiguo.
Basterà tutto ciò ad
aiutare la diffusione e lo sviluppo delle conoscenze scientifiche? Vedremo che ci
saranno altri ostacoli da superare.
La stampa
Per convenzione, si suole stabilire il confine tra Medioevo ed Era Moderna nel
1492, anno della scoperta del Nuovo Mondo. Se tutte le convenzioni sono
discutibili, quelle delle epoche storiche sono, a dir poco, ridicole, ma se proprio si
deve stabilire una data, proporrei il 1455, anno in cui comparvero a Magonza le
prime copie della “Bibbia delle 42 linee” stampate, si dice, da Gutenberg.
Fino a quel momento i libri, come si sa, erano prodotti manualmente da pazienti
amanuensi, generalmente membri di ordini monastici.
Rari erano i copisti privati
nel medioevo, che lavoravano su commissione di nobili e ricchi borghesi, e solo
dopo il XIII secolo si conoscono esempi di produzione commerciale di manoscritti,
soprattutto per far fronte alle necessità delle università, delle cancellerie reali e
dei tribunali.
I problemi generati da questo sistema erano molteplici: costo
elevato, scarsa produttività, frequenti infedeltà al testo originale, solo per citarne
alcuni. (19)
I caratteri mobili
Come spesso avviene per le innovazioni a grande impatto economico e sociale -
dal telefono, alla radio, al computer – anche la storia dell’invenzione della stampa,
è oggetto di discussione e di rivendicazioni, spesso nazionalistiche.
Cercare a tutti
i costi il ‘vero inventore’ di una tecnologia è, a volte, una sterile impresa.
Cosa
intendiamo per inventore? Colui che ha per primo avuto l’idea o chi ha costruito il
primo prototipo funzionante o, ancora, colui che lo ha brevettato o chi ne ha fatto
un successo commerciale? Ci sono momenti storici in cui certe idee sono, per così
dire, ‘nell’aria’ e molti, in molte località diverse, ci stanno pensando,
contemporaneamente ed indipendentemente.
Solo quando la tecnologia è matura
e la società dell’epoca è pronta a recepirla, un’invenzione potrà imporsi e allora
spesso un solo nome di ‘inventore’ passerà alla storia.
Nel caso della stampa, oltre a Gutenberg, troveremo qua e là menzionati
l’olandese Laurent Janszoon (Coster) di Haarlem, il francese Jean Mentelin di
Strasburgo, l’italiano Panfilo Castaldi di Feltre, Jean Brito di Bruges o Procope
Waldfoghel ad Avignone. Chiunque sia stato il ‘primo’ in Europa ad usare i
caratteri mobili, non fu certo il primo nel mondo.
Già nel 1041 d.C. , il cinese Pi Sheng aveva stampato pagine con caratteri mobili di terracotta. Considerando il
grande numero di logogrammi diversi necessari alla scrittura cinese, il
miglioramento di efficienza rispetto al manoscritto non era certo rilevante, ma la
finalità dell’Impero del Sol Levante non era quella di promuovere la diffusione
della conoscenza, quanto quella di garantire la correttezza e lo stile. (20)
In un altro
paese asiatico, la Corea, la stampa a caratteri mobili di rame comparve nel 1403.
La scrittura coreana, a differenza dal cinese, è un alfabeto che comprende solo 40
segni e la stampa a caratteri mobili poteva finalmente dimostrare la sua utilità. (21)
Stando alla interpretazione più diffusa, (22) Gutenberg - il cui nome completo era
Henne (Johann) Gänsfleisch zu Gutenberg (23) – nacque a Magonza nel 1400 e si
trasferì a Strasburgo nel 1434, dove svolse l’attività di orafo e, forse, iniziò i primi
esperimenti di stampa.
Successivamente, per problemi legali ed economici, tornò
a Magonza, città in cui intraprese i suoi esperimenti con i caratteri mobili di
piombo e stagno.
Nella città natale stampò probabilmente i suoi primi prodotti
editoriali, un “Calendario del 1448” e un breve “Poema sul Giudizio Universale”.
Si mise poi in società con il concittadino Johann Fust per stampare la famosa
Bibbia, ma finì ancora in guai finanziari e si vide sequestrare tutte le sue
attrezzature, torchio e caratteri compresi, a favore del socio.
Nel 1457 Gutenberg
riuscì a rimettersi in affari e, con i vecchi tipi del Calendario, produsse una nuova
e più piccola “Bibbia delle 36 linee”. Poco si sa del resto della sua vita, se non che
morì a Magonza nel 1467 o 1468. (24)
Non sapremo mai se Gutenberg sviluppò la sua idea attingendo da altre fonti, se
Fust gliela trasmise - rubandola a Janszoon, di cui era un aiutante (25) – o se altri
stavano mettendo a punto lo stesso procedimento, più o meno
indipendentemente.
Per certo la stampa con matrici di legno (xilografia) era nota
in Europa e i tipi mobili erano già conosciuti, anche se utilizzati per altre
funzioni, come i punzoni metallici usati dagli orafi e dai rilegatori di codici. (26)
Probabilmente, Gutenberg riunì diverse tecniche, trovò la giusta lega metallica
per i caratteri ed il metodo migliore per produrli, inventò un inchiostro più adatto
e convogliò il tutto in un’attività economica per produrre opere editoriali.
Della
Bibbia delle 42 linee furono stampate 180 copie, 145 su carta e le rimanenti su
pergamena, di cui sopravvivono 48 esemplari.
L’opera è ancora oggi considerata
di ottima fattura, sia per la qualità della stampa, sia per l’aspetto estetico della
composizione che simulava i migliori prodotti degli amanuensi. (27)
Anche se per Gutenberg non fu proprio un successo economico, l’invenzione ebbe
un impatto senza precedenti. Prima del suo tempo esistevano non più di 30.000
libri in tutta Europa, ma già nel 1500 si contavano 60 stampatori nelle città
tedesche ed entro cinquant’anni erano disponibili più di nove milioni di volumi,
prodotti da più di 1.700 tipografie sparse in ogni paese europeo. (28)
Una così
rapida e vasta diffusione di una nuova tecnologia non era mai avvenuta e si
ripeterà solo con la Rivoluzione Industriale.
Il 31 ottobre 1517, poco più di sessant’anni dopo la pubblicazione della Bibbia, il
monaco Martin Lutero affisse, sul portale della chiesa di Wittenberg, le sue
“Novantacinque tesi”, dando avvio alla Riforma Protestante.
Uno dei cardini del
protestantesimo fu il rilievo dato ai Testi Sacri nello stabilire le regole della fede.
Diventava quindi essenziale la lettura diretta del Libro da parte dei credenti, non
più mediata dalle gerarchie ecclesiastiche, e ciò comportava che i libri avrebbero
dovuto essere prodotti in grande quantità e a costi contenuti: la stampa era
arrivata al momento giusto per garantirsi un vasto ‘mercato’!
Lutero chiamò il torchio da stampa “l’ultima e la più grande benedizione di Dio” e
Francesco Bacone, di cui parleremo più avanti, sostenne che la stampa “aveva
cambiato l’immagine e lo stato del mondo intero”.
Non tutti però accolsero
positivamente questa invenzione.
Erasmo, (29) uomo colto e illuminato, mostrava
riguardo un certo nervosismo, che manifestava così : “In quale angolo del mondo
ancora non vola questo sciame di nuovi libri? Può anche essere che uno qua e uno
là contribuisca a qualcosa che sia degno di essere conosciuto, ma un eccessivo
numero di essi è pericoloso per gli studiosi, perché produce sazietà, e anche delle
cose buone la sazietà è dannosa ... Gli stampatori stanno riempiendo il mondo di
libri, non solo di opere insignificanti (come, forse, quelle che io scrivo) ma anche di
libri stupidi, ignoranti, diffamatori, deliranti, irreligiosi e sediziosi ...”. (30)
Particolarmente sensibili al successo della stampa furono le istituzioni politiche e
religiose che vedevano nella diffusione dei libri un pericolo per la loro autorità.
La
preoccupazione nasceva dalla constatazione che un semplice artigiano poteva
ormai produrre e vendere liberamente opere letterarie.
In quasi tutte le nazioni
europee furono varate leggi che garantivano uno stretto controllo sull’attività dei
tipografi.
Già a Milano nel 1483 e nella Repubblica di Venezia nel 1545 erano
necessari privilegi concessi dalle autorità per poter produrre un libro a stampa.
In
Inghilterra, un editto del 1662 concedeva solo al Re la prerogativa di regolare la
produzione e la vendita di libri. (31)
Se, nella lettera, queste leggi furono animate
dalla volontà di proteggere autori ed editori da illecite copie, nella prassi
permisero anche di controllare la produzione di testi considerati, al tempo,
blasfemi o sediziosi. (32)
Il freno più forte alla diffusione della stampa, comunque, veniva dall’ancor elevato
livello di analfabetismo; occorreranno altri quattrocento anni prima di poter
affermare che ‘tutti’ erano in grado di leggere.
La carta
L’invenzione della stampa a caratteri mobili non avrebbe potuto garantire la
diffusione dell’attività editoriale se non ci fosse stata una contemporanea
evoluzione del supporto fisico dello scritto.
I codici medievali, è noto, erano scritti
generalmente su pergamena, (33) un materiale ricavato dalla pelle di pecora, capra o
vitello e di costo elevato, se si pensa che per un piccolo codice occorrevano le pelli
di qualche decina di animali. (34)
All’epoca questo prezzo era ancora trascurabile in
confronto al costo del lavoro dell’amanuense, che poteva impiegare anche alcuni
anni per copiare un testo, ma con l’avvento della stampa il supporto diventava il
fattore economico più rilevante.
Nel 114 d.C. in Cina, dove i documenti erano precedentemente scritti su strisce di
bambù, un ufficiale di corte di nome T’sai Lun descrisse il metodo per la
produzione della carta a partire da stracci di cotone. (35)
La tecnologia passò prima
in Corea e quindi fu esportata in Giappone.
L’invenzione raggiunse l’India e il
Medioriente per approdare finalmente in Spagna (ca. nel 1050 d.C.) (36) e poi in
Italia nel XIII secolo. (37)
La carta di stracci rimase comunque a lungo un bene di
lusso, che contribuiva per più di un terzo al costo dei libri, fino al XIX secolo,
quando si imposero metodi industriali per produrre carta a partire dalla polpa di
legno, (38) soprattutto per produrla in rotolo continuo e non più in fogli singoli.
L’uso della polpa di legno in sostituzione degli stracci, anche se abbassò i costi e
contribuì a facilitare la diffusione dei prodotti editoriali, provocò un grave
problema di conservazione: la lignina presente nella polpa tendeva a far ingiallire
prematuramente le pagine e a renderle più fragili (la cosiddetta carta acida).
Le riviste scientifiche.
Il diciassettesimo secolo vede la nascita della ‘scienza’ nella moderna accezione
del termine.
E’ il secolo di Galileo, di Newton, di Leibniz, di Cartesio e di molti
altri ‘filosofi della natura’ (39) che gettarono i fondamenti di quell’approccio empirico
ed induttivo alla comprensione dei fenomeni naturali che permetterà di liberarsi
dal pensiero filosofico greco e scolastico.
Non si deve certo credere che ‘da un
giorno all’altro’ i filosofi avessero abbandonato lo spirito medievale: Galileo e
Keplero compilavano oroscopi (40) e Newton si dedicava ad esperimenti di
alchimia. (41)
D’altra parte, l’amore per la conoscenza e per la libera discussione
delle idee può essere pre-datato al cosiddetto ‘Piccolo Rinascimento’ del XIII
secolo, che vide la fondazione delle Università e la riforma dell’istruzione.
Non
dimentichiamo infine che Leonardo (1452-1519) e Copernico (1473-1543) erano
vissuti nei due secoli precedenti.
Ma è nel Seicento che si fa strada un nuovo
modo di considerare la conoscenza della natura ed uno dei paradigmi di questo è
proprio la necessità di comunicare le proprie scoperte, di pubblicarle e
distribuirle senza limiti geografici o politici, in modo che vengano condivise,
discusse e criticate da altri studiosi.
Tra i più energici fautori di questa rivoluzione, anche se lui stesso non produsse
scienza, fu Francesco Bacone. (42)
Nei suoi scritti Bacone raccomandava ai filosofi
di affrancarsi definitivamente dall’autorità degli antichi e di finalizzare i propri
studi alla produzione di risultati utili alla società, sostenendo che “il fine della
nostra scienza non è di scoprire argomenti, ma arti; non le conseguenze che
derivano dai principi, ma i principi stessi; non ragioni di probabilità, ma
designazione ed indicazioni di opere”.
Bacone invitava a superare la auctoritas dei
classici, e a ricucire lo strappo millenario che i Greci avevano prodotto tra
l’epistéme e la téchne. Come già i dotti Vives, (43) Leonardo e Galileo prima di lui,
Bacone incitava a ‘sporcarsi le mani’ e frequentare i ‘vil meccanici’ le cui ‘arti’
possedevano già da tempo quelle caratteristiche di progressività, accumulo del
sapere e collaborazione che avrebbero dovuto essere proprie anche della filosofia
naturale.
Proprio alla collaborazione tra i ricercatori e al bisogno di continua discussione e
critica si deve la nascita delle riviste scientifiche.
Prima della loro comparsa, la
validazione dell’esperimento e dell’osservazione era affidata dalla testimonianza di
un numero limitato di notabili invitati ad assistervi.
Fu un altro filosofo naturale
dell’epoca, l’inglese Robert Boyle, (44) che incitò a scrivere ‘resoconti’ delle
esperienze effettuate in modo da permettere a lettori distanti di ripetere gli
esperimenti in questione. L’esperienza del singolo poteva così essere diffusa e resa
pubblica trasformando i lettori in testimoni ‘virtuali’. (45)
I dotti dell’epoca rinascimentale comunicavano tra loro prevalentemente per via
epistolare. La rete di comunicazione tra i filosofi era molto più vasta di quanto ci
possiamo immaginare, non ostante le difficoltà logistiche di un’epoca che non
conosceva regolari servizi postali pubblici. (46)
Il sistema della corrispondenza non
può però essere paragonato alla pubblicazione, si trattava semplicemente di un
privato scambio di idee tra due studiosi. (47)
Nascita delle riviste scientifiche e loro proliferazione.
Le riviste scientifiche nacquero in parallelo alla fondazione delle Società
Scientifiche, anche se non sempre il legame tra le due istituzioni era formale. (48)
I
primi due periodici scientifici furono il francese Journal des Sçavans ed il
britannico Philosophical Transactions.
In Francia, il parlamentare Denis de Sallo (49) diede alle stampe il primo numero del
Journal des Sçavans il 15 gennaio del 1665. Sallo era un rappresentante del
gruppo di intellettuali che contribuì poi a fondare la Académie des Sciences. (50)
Il
Journal fu il modello dei periodici che si rivolgevano ad un largo pubblico, non
solo agli studiosi; il suo contenuto si fondava su resoconti di libri, conditi con
commenti e divagazioni dei redattori, pochi contributi originali sotto forma di
lettera (51) e altre novità varie della vita culturale francese ed estera.
Meno di due mesi dopo, il 6 marzo del 1665, apparve a Londra il mensile
Philosophical Transactions, fondato da Henry Oldenburg, (52) che un secolo più tardi
diventerà l’organo ufficiale della Royal Society. (53)
Diversamente dal predecessore francese, le Transactions erano prevalentemente dedicate alla ricerca scientifica e
destinate agli studiosi.
L’idea di Oldenburg era quella di creare una sorta di
‘registro’ della scienza, un documento che, essendo pubblico, stabiliva in modo
inequivocabile la paternità e la priorità di una scoperta o di un’invenzione.
Alla
diffusione ed alla discussione delle ipotesi scientifiche si affiancava quindi il
riconoscimento del valore del ricercatore e delle sue creazioni; funzione che
prevarrà sempre più, fino a diventare l’elemento più rilevante della letteratura
scientifica moderna.
Negli anni successivi apparvero in Europa altre pubblicazioni di questo tipo, come
il Giornale dei litterati di Roma (1668), la Miscellanea curiosa medico-physica, della
Academia Naturae Curiosorum di Halle (1670), gli Acta medica et philosophica
hafniensia di Copenhagen (1673) e gli Acta Eruditorum di Lipsia (1682).
Seguì
presto una vera e propria esplosione di periodici scientifici che diventarono
sempre più specializzati, focalizzandosi su specifiche discipline.
Nell’Ottocento le
pubblicazioni si divisero in due gruppi: quelle dedicate al grosso pubblico, che
proliferarono nell’epoca vittoriana diventando un lucrativo business, e quelle
destinate ai ricercatori, a tiratura più limitata.
Queste ultime raggiunsero il
centinaio di titoli prima del 1800, crebbero fino al migliaio nel 1850, per sfiorare
il numero di ottantamila nel 1970. (54)
Una crescita esponenziale che, come
vedremo, contribuirà a provocare una vera a propria crisi dell’editoria scientifica.
L’evoluzione del linguaggio scientifico.
Le basi stesse del progresso scientifico, cioè la condivisione, la riproducibilità e la
critica delle scoperte degli studiosi, non avrebbero potuto consolidarsi senza il
supporto delle pubblicazioni a stampa che divennero presto un fattore necessario,
ma ancora non sufficiente.
Se torniamo all’inizio di questo breve viaggio nel
tempo, il paragone tra il Papiro di Ebers e l’articolo di Environmental Health
Perspectives, vediamo che una sostanziale differenza si trova nel lessico utilizzato
dagli scienziati.
Già nel ‘400, Leonardo (55) era conscio della necessità di una terminologia più ricca
e precisa per descrivere fenomeni naturali e macchinari complessi e cercò lui
stesso di affinare il proprio linguaggio.
Ricordiamo che Bacone non era ancora
apparso sulla scena e che il da Vinci scriveva forse solo per se stesso, come
dimostrerebbe il suo sforzo per rendere illeggibili i suoi ‘appunti’.
Anche
Agricola, (56) nel XVI secolo, lamentava l’inadeguatezza del linguaggio in uso ai suoi
tempi.
La baconiana ‘utilità sociale’ del sapere non poteva certo essere messa in
pratica senza uno stile adeguato di scrittura.
Ancora nei secoli XVI e XVII molti filosofi usavano un linguaggio ermetico che,
nelle loro intenzioni, doveva servire a nascondere ai non-iniziati profonde verità
esoteriche destinate esclusivamente a pochi eletti.
In realtà, ciò serviva anche a
celare idee confuse, conoscenze approssimative, se non vere e proprie truffe,
quelle che oggi chiameremmo ‘frodi scientifiche’.
La forma ermetica era infatti
paradigmatica dell’alchimia, arte in cui la chiara descrizione delle procedure e la
riproducibilità degli esperimenti non era certo un fine da perseguire.
Per fare un esempio di come lo stile si sia evoluto, consideriamo la seguente
descrizione di Aristotele (IV secolo a.C.) (57) : “Sia A il motore, B il mosso, C la
lunghezza percorsa, D il tempo in cui si attua il movimento. In un tempo uguale la
forza uguale A muoverà la metà di B per il doppio di C, e muoverà C nella metà di
D: tale, infatti sarà la proporzione. E, inoltre, se la stessa forza muoverà lo stesso
oggetto in questo tempo qui secondo tanta lunghezza, e lo muoverà secondo la metà
della lunghezza nella metà del tempo, anche la metà della forza muoverà parimenti
la metà dell’oggetto in uguale tempo secondo una lunghezza uguale. Se però E
muove F per uno spazio C in un tempo D, non segue necessariamente che E possa
in un tempo eguale muovere una massa doppia di F per metà dello spazio C;
potrebbe darsi invero che non provocasse alcun movimento”.
Confrontiamolo con Newton (1687), (58) ”Ciascun corpo persevera nel suo stato di
quiete o di moto rettilineo uniforme, salvo che sia costretto a mutare quello stato da
forze impresse. ... I proiettili perseverano nei propri moti salvo che siano rallentati
dalla resistenza dell’aria e sono spinti verso il basso dalla forza di gravità. Un
cerchio non cessa di ruotare, salvo che venga rallentato dalla resistenza dell’aria ...”.
Anche se non stanno trattando esattamente del medesimo argomento, è
indubitabile la maggior chiarezza e la precisione di Newton.
Forse, il grande
‘peccato’ di Galileo non fu soltanto quello di aver condiviso l’eretica teoria
eliocentrica di Copernico, ma anche di aver scritto il Dialogo in lingua volgare ed
in una forma particolarmente facile da leggere e da comprendere anche da parte
dei meno colti; si potrebbe dire che Galileo fu il primo dei divulgatori scientifici.
Il già nominato Boyle descriveva i suoi esperimenti in modo così dettagliato e
circostanziato da rendere i suoi scritti molto simili agli articoli tecnici dei giorni
nostri.
A conferma dell’attenzione che i primi movimenti scientifici ponevano al lessico, si
può citare Paolo Rossi che così racconta: “A tutti i membri della Società [la Royal
Society] si richiedeva ‘un modo di parlare discreto, nudo, naturale: sensi chiari; la
capacità di portare tutte le cose il più vicino possibile alla chiarezza della
matematica; una preferenza per il linguaggio degli artigiani, dei contadini, dei
mercanti piuttosto che per quello dei filosofi”. (59)
Nei secoli successivi, ad estromettere disordine ed imprecisione dagli scritti
scientifici intervennero, fra gli altri, Linneo (60) e Lavoisier (61).
Il primo riordinò la
nomenclatura dei viventi, introducendo la denominazione binomia delle specie
vegetali; il secondo mise ordine nella terminologia chimica che fino ad allora era,
a dir poco, fantasiosa.
Grafici e Tabelle.
Una delle caratteristiche che più differenzia i testi scientifici moderni da quelli
antichi è certamente la presenza di tabelle, grafici e disegni.
Se è pur vero che i
codici medievali erano ricchi di splendide illustrazioni, queste erano pensate più
per impreziosire l’opera e suscitare meraviglia nel lettore che non per aggiungere
significato o per migliorare la comprensibilità.
Generalmente si trattava di
allegorie e non di rappresentazioni della realtà fisica. (62)
Illustrazioni utili come
strumenti per la comprensione del testo le troviamo solo a partire da Leonardo,
certamente per effetto della sua formazione come pittore, ma i suoi appunti non
erano scritti per essere compresi da altri.
Le illustrazioni naturalistiche, anatomiche e meccaniche, come parte integrante
dei trattati tecnico-scientifici, precorrono in verità di quasi un secolo la
rivoluzione scientifica e sono contemporanee all’invenzione della stampa.
Particolarmente fiorente fu l’iconografia delle opere che riguardavano le arti
meccaniche come, ad esempio, il ‘De re metallica, libri xii’ (1556) di Giorgio Bauer,
o ‘Le diverse ed artificiose macchine del capitano Agostino Ramelli’ (1588) dello
stesso Ramelli. (63)
Le illustrazioni fioriranno dal XVI secolo in poi, sulla spinta delle
scoperte naturalistiche dei nuovi mondi, dell’approfondimento dell’anatomia
umana e animale e della progettazione di nuovi macchinari, diventando un
complemento irrinunciabile per ogni prodotto editoriale di una certa rilevanza. (64)
Nel Settecento apparirà poi una nuova forma di illustrazione a forte contenuto
informativo: il grafico.
L’idea di Cartesio di poter rappresentare qualunque
quantità con punti disposti su un piano diviso da assi ortogonali era ormai
entrata nella analisi matematica, ma i primi grafici videro la luce nei trattati di
economia, quali l’”Atlante commerciale e politico” di William Playfair, (65) pubblicato
nel 1786.
In quest’opera comparve, per la prima volta, la rappresentazione grafica
dei dati, sotto forma di ‘barre’ e ‘torte’. (66)
Quello che a noi sembra una saggia
innovazione, fu invece osteggiata ai tempi di Playfair, che così nota: “Questo
metodo è considerato erroneo da molte persone, poiché [secondo loro] le misure
geometriche non hanno alcuna relazione con il denaro o con il tempo, eppure qui si
vorrebbe rappresentarli entrambi”.
Il sistema della “peer-review”.
Nel primo secolo dopo la loro nascita, le riviste scientifiche erano solite
pubblicare indiscriminatamente tutto quello che veniva loro sottoposto.
Molto
spesso il redattore contribuiva alla maggior parte del contenuto e si limitava ad
una grossolana cernita di quanto proveniva da fonti esterne.
Di fatto, c’era
generalmente più richiesta di materiale da pubblicare, che offerta.
La necessità di garantire la qualità scientifica dei contributi nacque non tanto dai
redattori o dagli editori dei periodici, quanto dalle Società Scientifiche.
Queste
vedevano con preoccupazione l’uso della loro egida per la pubblicazione di
argomenti o teorie di discutibile valore.
In quest’ottica, nel 1775 la Académie
Royale des Sciences, votò la seguente risoluzione: “ ... di non esaminare alcuna
soluzione di problemi sui seguenti argomenti: la duplicazione del cubo, la trisezione
dell'angolo, la quadratura del cerchio o alcuna macchina per dimostrare il moto
perpetuo”, stabilendo così una specie di censura preventiva su quanto poteva
essere pubblicato.
Già quarant’anni prima, le Philosphical Transactions, divenute
organo della Royal Society, si erano dotate di un “Committee on Papers” composto
da illustri membri della società, che aveva il compito di valutare i manoscritti ed
eventualmente rifiutarli o proporre all’autore miglioramenti.
Nel secolo successivo e soprattutto nel Novecento, la peer-review divenne prassi
comune nell’editoria scientifica, prima affidato al redattore, poi a ‘comitati
editoriali interni, infine ad una selezione di esperti riconosciuti del settore scelti
senza limiti geografici. Determinante a questo fine fu la sempre più spinta
specializzazione della ricerca.
Le riviste del settore medico furono tra le ultime ad
adottare la peer-review: nel 1893 il British Medical Journal per primo sottoponeva
regolarmente gli articoli ricevuti alla valutazione di esperti.
Come afferma Kronick (67), la peer-review è divenuta “parte integrale del processo di
costruzione del consenso che è inerente e necessario alla crescita della conoscenza
scientifica”, in una parola è divenuto il ‘marchio di qualità’ degli articoli
pubblicati.
La peer-review non impedisce certo abusi, pregiudizi ed errori, ma,
come diceva Ch urchill riferendosi alla democrazia, “è il peggior sistema possibile,
... salvo tutti gli altri”.
L’avvento del computer: La crisi dell’editoria scientifica.
Tra il Seicento ed il Novecento la pubblicistica tecnico-scientifica,
particolarmente quella periodica, si era evoluta fino a raggiungere lo standard a
cui noi siamo abituati. (68)
L’evoluzione fu parallela all’esplosione della ricerca e
delle scoperte scientifiche e coerente con essa, e così fu anche quella del ‘sistema
editoriale’, che vi si accompagnava, cioè l’insieme degli autori, degli editori (privati
o istituzionali), dei revisori, dei curatori, dei tipografi, e delle biblioteche.
Non solo
la pubblicazione scientifica rispondeva alla necessità di far circolare le idee e
garantiva ormai il riconoscimento della priorità e della qualità del lavoro di
ricerca, come Oldenburg aveva preconizzato, ma permetteva la valutazione del
valore di un ricercatore.
Quest’ultimo aspetto diverrà determinante negli anni ’60
quando si introdusse il concetto dell’ impact factor, (69) come strumento
quantitativo di valutazione, fondamentale per la carriera dello scienziato ed il
finanziamento del suo lavoro.
Il sistema iniziò ad andare in crisi al termine della II Guerra Mondiale, quando ci
si rese conto che la quantità di pubblicazioni scientifiche era tale che stava
diventando difficile per il ricercatore mantenersi informato su ciò che facevano i
suoi colleghi in altre parti del mondo e praticamente impossibile sapere cosa si
scopriva in settori diversi dal proprio ristretto ambito di specializzazione. (70)
Già da tempo erano comparsi vari ausili, quali i repertori bibliografici e i sistemi
di alerting, e stavano nascendo le prime ‘banche dati bibliografiche accessibili per
via telematica. (71)
Ma tutto ciò risolveva solo parzialmente le criticità.
Altri fenomeni concomitanti produssero conseguenze altrettanto serie.
Negli anni
’50 e ’60 si assistette ad una concentrazione delle testate nelle mani di un gruppo
di editori commerciali, causata dall’aumento di costi di produzione e distribuzione
e dalla conseguente difficoltà delle associazioni scientifiche e delle istituzioni
accademiche a continuare la loro attività editoriale.
Contemporaneamente, come
già detto, era diventato irrinunciabile per un ricercatore la pubblicazione dei suoi
risultati: si era originato il fenomeno cosiddetto del publish-or-perish, per effetto
del quale la sopravvivenza professionale degli scienziati dipende dal numero di
articoli pubblicati e dalla rinomanza delle testate sui cui vengono pubblicati.
Ciò
a sua volta aumentava la richiesta di spazio editoriale, dilatava a dismisura i
tempi di pubblicazione ed incrementava i costi.
Nasceva così un mercato editoriale in cui la relazione tra domanda, offerta e costi
non era più determinata da un legame ‘fisiologico’. (72)
Come afferma Michele
Santoro: (73) “Si tratta di una situazione che trova la sua genesi nel meccanismo
stesso della comunicazione scientifica: difatti gli studiosi pubblicano i loro lavori su
riviste che sono di proprietà degli editori commerciali, ai quali generalmente cedono
tutti i diritti, non solo non ricevendo alcuna retribuzione, ma essendo a volte
costretti a versare un contributo per la pubblicazione. Così gli editori …... possono
"rivendere" questi lavori alle biblioteche delle stesse università di cui fanno parte gli
studiosi che li hanno prodotti, innescando quella spirale che costringe le biblioteche
a tagliare gli abbonamenti per far fronte agli aumenti dei costi, e che vede gli
studiosi espropriati dei vantaggi - economici oltre che informativi - di un sistema di
cui sono parte determinante”.
Non solo era difficile poter leggere tutto ciò che interessava, ma i budget delle
biblioteche accademiche non riuscivano più a reggere l’incremento dei costi di
acquisizione di tutti i periodici necessari, ed i ricercatori non accettavano più i
lunghi tempi necessari alla pubblicazione dei loro risultati.
La corsa alla
pubblicazione era diventata irrinunciabile e con scadenze sempre più pressanti:
occorrevano nuovi strumenti.
Prima del computer.
Per capire cosa stava succedendo e quali erano le possibili vie d’uscita bisogna
rifarsi a due illuminati ‘visionari’: Paul Otlet e Vannevar Bush.
Paul Otlet 74 è oggi considerato il fondatore della scienza della documentazione,
quella disciplina che elabora metodi e tecnologie per classificare, archiviare,
indicizzare e recuperare selettivamente i documenti.
Mi permetto di chiamarlo ‘visionario’ perché questo personaggio aveva una visione utopistica su come
affrontare il problema della proliferazione dei documenti e della loro reperibilità.
Già all’inizio del XX secolo Otlet prefigurava la creazione di un centro mondiale
della documentazione, poi battezzato Mundaneum, che raccogliesse tutto il
sapere accumulato sotto forma di testi scritti e lo classificasse secondo un metodo
razionale per renderlo disponibile a tutti gli studiosi.
Il suo sogno andava al di là
della semplice biblioteca universale, arrivando a immaginare che : “Si creerà una
tecnologia fruibile a distanza che combina radio, raggi X, [sic.] cinema e
microfotografia. Ogni cosa dell’universo e ogni cosa dell’uomo saranno registrati a
distanza nel momento in cui saranno prodotti. In questo modo si produrrà
un’immagine dinamica del mondo, vero specchio della memoria. Da un punto
distante, ognuno potrà leggere i testi, generali o limitati al soggetto desiderato,
proiettati su uno schermo individuale”.
Otlet aggiunse poi che “Questo sviluppo
consiste nello stabilire connessioni tra ciascun documento e tutti gli altri e formare
con essi quello che può essere chiamato - libro universale”. (75)
Sembra una
descrizione ante-litteram dello Wold Wide Web dei giorni nostri.
L’invasione e
l’occupazione del Belgio nel 1940 ed i problemi della ricostruzione post-bellica
distrussero quanto Otlet aveva creato e di lui si perse quasi memoria.
Pochi anni dopo, negli Stati Uniti, un certo Vannevar Bush si troverà ad
affrontare lo stesso problema, ma in un’ottica più pragmatica.
Bush (1890-1974)
era consigliere scientifico del presidente F. D. Roosevelt e direttore dello ‘Office of
Scientific Research and Development’, incarico che lo rese responsabile del
coordinamento di più di 6.000 scienziati coinvolti nelle ricerche militari durante
la II Guerra Mondiale. Nel 1939 Bush descrisse, per la rivista Fortune, una
‘macchina’ che avrebbe combinato le tecnologie esistenti (elettromeccanica,
microfoto, scansione ottica) per accedere ai documenti secondo un approccio
simile ai processi associativi del cervello umano.(76)
Bush battezzò lo strumento MEMEX (MEmory EXpander).
Nel MEMEX si prefiguravano già l’ipertesto e della
multimedialità.(77)
A Otlet e a Bush mancava la giusta tecnologia, ma questa era ormai a portata di
mano: stava arrivando sulla scena il ‘computer’. (78)
Computer e Testi
Tra le invenzioni moderne, il computer è quella che meglio conferma il celebre
aforisma di Arthur C. Clarke, (79) secondo cui “ogni tecnologia sufficientemente
avanzata non è distinguibile dalla magia”.
Anche nel caso del computer - invenzione vecchia di soli sessant’anni - sono tutt’ora in corso accese diatribe su
chi ne fu il vero inventore. Rimandando l’approfondimento alle opere citate in
bibliografia, mi limito a ribadire che, come per la stampa, l’idea era ‘nell’aria’ e
che molti, da Charles Babbage (80) in poi, si cimentarono con la progettazione di
questa macchina, ciascuno contribuendo con idee e soluzioni tecniche.
I primi calcolatori automatici programmabili comparvero negli anni ’40 dello scorso
secolo in Germania, negli Stati Uniti ed in Inghilterra. (81)
I computer di quel primo periodo erano macchinari costosissimi, enormi, delicati,
poco affidabili e difficili da usare.
La loro funzione - ed il motivo per cui furono
progettati - era il puro e semplice calcolo numerico, necessario alla ricerca
dell’industria bellica, aerospaziale e nucleare o alla contabilità delle grandi
corporations.
Queste macchine erano affidate alle cure di una gelosa confraternita
di adepti che agivano da invalicabili intermediari tra l’utente e il cervello
elettronico.
Questo stato di cose iniziò a cambiare negli anni ’60 con la comparsa dei
‘minicomputer’, molto meno costosi, più affidabili e più facili da usare, accessibili
direttamente al singolo utilizzatore.
Ma la vera rivoluzione informatica avvenne
dopo il 1975 con la costruzione dei microcomputer, battezzati poi ‘personal
computer’, e soprattutto con l’avvento delle interfacce grafiche, del mouse, del
software e delle connessioni in rete. Ora veramente chiunque poteva sfruttare le
opportunità offerte dall’informatica. (82)
Ci si rese presto conto che, anche se nato per il calcolo matematico, il computer
può svolgere qualunque operazione logica su qualunque insieme di simboli,
quindi anche sui testi scritti, materializzando così la macchina universale di
Turing.
La macchina da calcolo fu presto impiegata per la produzione di indici,
per la creazione di testi, per la gestione di database della letteratura scientifica,
cominciando a soddisfare alcuni dei desideri di Otlet e Bush.
Uno degli antesignani dell’uso dei calcolatori per la trattazione dei testi fu il
gesuita Padre Roberto Busa che, già nel 1949, usava le macchine IBM a schede
perforate, (83) per l’analisi lessicografica delle opere di Tomaso d’Aquino, realizzando
lo Index Thomisticus. Dagli anni ’70 l’applicazione più comune dei personal
computer fu proprio la gestione dei testi: lo word processing. (84)
La rete, i bollettini, la posta elettronica.
Nel 1969, anno dell’indimenticabile missione lunare Apollo XI, esattamente il 29
ottobre, alle 14:30 (tempo medio europeo), un giovane laureando, Charles Kline,
provò a collegare un computer dell’UCLA (University of California, Los Angeles)
con uno dello Stanford Research Institute.
Il primo messaggio trasmesso fu il
comando ‘LOGIN’.
Questo timido balbettio digitale fu l’alba di un fenomeno che
oggi incide sulla vita economica e sociale molto più dello sbarco sulla Luna: era
nato il primo abbozzo di una ‘rete di calcolatori, battezzata ARPAnet. (85)
Il tutto era cominciato con la preoccupazione scatenata negli USA dalla messa in
orbita dello Sputnik, nel 1957, che spinse il presidente Eisenhower a fondare la
Advanced Research Projects Agency (ARPA) il cui mandato era il recupero e il
mantenimento della superiorità tecnologica statunitense nei confronti del blocco
sovietico.
Nel 1964 un ricercatore della RAND (86), Paul Baran, pubblicò un
rapporto intitolato On Distributed Communications Networks in cui prefigurava
“...un sistema di comunicazione, senza un evidente comando centrale, in cui tutti i
punti sopravviventi ad eventuali attacchi possono ristabilire contatti e
funzionamento senza perdite di connettività e di informazioni”.
Non si pensi che le motivazioni fossero solo di carattere politico-militare, infatti
due anni prima un altro dei padrini di Internet, J.C.R. Licklider (87) immaginava
che “...i computer potranno aiutare i ricercatori a comunicare e condividere le
informazioni, … un giorno le comunità e le persone con interessi comuni potranno
discutere argomenti scientifici on-line”. (88), (89)
Nel 1969 furono collegati i primi quattro nodi di ARPANnet, (90) che crebbe
rapidamente e fu presentata per la prima volta al pubblico nel 1972, (91).
Nel 1990 ARPAnet cessò di esistere e il Dipartimento della Difesa (DoD) spostò il traffico su
una propria rete: MILnet.
Il rischio di un disastroso black-out delle comunicazioni
scientifiche fu evitato dalla lungimiranza della National Science Foundation
americana che, dal 1986, era subentrata al DoD nella gestione della rete.
La rete,
ribattezzata NSFNet, riunì la maggior parte delle università americane e aprì la
connessione anche ai centri di ricerca del vecchio continente.
Negli anni
successivi quasi tutti i paesi industrializzati crearono le loro reti scientifiche,
commerciali ed industriali.
Altre applicazioni della rete nacquero in sordina e quasi per gioco; un esempio
paradigmatico é la posta elettronica.
Nel 1972 Ray Tomlinson inventò il primo
programma di e-mail (e il famoso simbolo @). (92)
Già l’anno successivo i messaggi
di posta costituivano il 65% di tutto il traffico sulla rete.
La prima mailing-list fu
creata nel 1975 da Steve Walker per riunire gli appassionati di fantascienza di
tutto il mondo. Dalle mailing-list nacquero i bulletin-boards, sorta di bacheche
elettroniche e forma embrionale delle pubblicazioni digitali.
Il computer, nato per eseguire calcoli, e la rete, nata per problemi militari, erano
confluiti per trasformarsi in - e continuare ad essere - un ‘mezzo di
comunicazione’, dedicato inizialmente alla cerchia di tecnici e scienziati, ma
presto esteso a tutti. Il passo successivo sarà l’ingresso delle due tecnologie,
riunite sotto il nome di ‘telematica’, (93) nel mondo della editoria scientifica.
Licklider aveva visto giusto.
La multimedialità, l’ipertesto e il WWW.
Due erano le tecnologie che ancora mancavano negli anni sessanta dello scorso
secolo per ottenere un sistema come quello prefigurato da Otlet e Bush e
realizzare una ‘rete della conoscenza’ come oggi la conosciamo: la multimedialità
e l’ipertesto.
Tra i tanti finanziamenti che il Governo Americano distribuiva con larghezza, uno
in particolare finì allo Stanford Research Institute, nelle mani di Douglas C.
Engelbart. (94)
I progetti su cui Engelbart stava lavorando riguardavano l’interfaccia
di comunicazione tra uomo e computer, problema da affrontare seriamente per
uscire dai vincoli imposti dal sistema dei ‘centri di calcolo’.
Doug era un
sognatore che seguiva il miraggio di un computer destinato ad ‘espandere’ le
capacità della mente umana (95) e, per raggiungere questo risultato, doveva
inventare nuovi strumenti di colloquio tra uomo e macchina, più diretti ed
interattivi.
Nel dicembre del 1968 il risultato di Engelbart e del suo gruppo fu
oggetto di una pubblica dimostrazione che lasciò i presenti letteralmente ‘a bocca
aperta’: su un grande schermo si vedevano scorrere contemporaneamente testi,
listati di programmi, disegni e diagrammi, assieme al volto di Engelbart che
spiegava la dimostrazione; il tutto gestito da un computer.
Si trattava dello NLS
(oNLine System) e la presentazione era comandata da uno strano aggeggio che
Doug muoveva con una mano: il mouse.
Le invenzioni di Engelbart (mouse,
schermo a finestre, WYSIWYG, etc.) saranno sfruttate dalla Xerox nel suo
computer Alto96 del 1972.
Passeranno poi alla Apple che le incorporerà prima nel
modello Lisa (1983) e poi nel Macintosh (1984). (97)
Un altro “visionario”, Ted Nelson, (98) nel suo libro Literary Machine immaginava
nel 1960 che : “il futuro dell’umanità starà nell’interazione con uno schermo di
computer” e che “gli scritti e le immagini saranno interattivi e interconnessi”.
Nel
1968 coniò il termine ‘Ipertesto’ per rappresentare questo insieme di collegamenti
virtuali tra diversi documenti.
Bisogna però arrivare al 1989, quando al Centro Europeo per la Ricerca Nucleare
di Ginevra, un giovane fisico di nome Tim Berners-Lee affrontò il problema della
disponibilità on-line dei documenti e del loro collegamento semantico e
referenziale, pubblicando il rapporto “Information management: a proposal”.
Berners-Lee sfruttò le potenzialità della rete, dove ormai i diversi frammenti di
conoscenza possono trovarsi disseminati su computer sparsi in tutto il mondo e
sarà il lettore/navigatore, grazie ai collegamenti ipertestuali, a scegliere i percorsi
da seguire.
Nel 1993 fu pronto il primo software per la navigazione ipertestuale in
rete, chiamato MOSAIC: lo World Wide Web era ormai una realtà.
La rete mondiale di computer era ormai pronta per sostituirsi non solo alla
stampa, ma anche alla radio, alla televisione, al cinema ed alle conferenze. Il
Mundaneum di Otlet era diventato realtà, ma con una sostanziale differenza: non
un sistema gerarchico soggetto ad un controllo centralizzato, ma una
democratica, anzi anarchica, devoluzione.
L’e-journal.
Già alla fine degli anni ’70, le reti (Internet, BITnet, Usenet e altre) erano
diventate il più rapido mezzo di comunicazione e pubblicazione dei risultati
scientifici, (99) particolarmente nei settori dell’informatica, della fisica e della
matematica. Da principio, i maggiori editori scientifici accolsero la novità con
forte scetticismo: vedevano messa a rischio la vendita delle versioni a stampa e
non sapevano come gestire una tecnologia così innovativa.
Anche molti tra gli
studiosi erano preoccupati della nuova tendenza, paventando una perdita di
rigorosità a seguito del mancato controllo della qualità scientifica, stabilito dal
sistema della peer-review.
Nonostante ciò, nel 1987 apparve in rete il primo e-journal, lo “New Horizons in
Adult Education”, solo testuale e distribuito gratuitamente.
Cinque anni dopo fu
disponibile la prima rivista di medicina esclusivamente elettronica: lo “Online
Journal of Current Clinical Trials”, corredata di figure e grafici e la cui
sottoscrizione era a pagamento. (100)
Entrambe queste testate digitali garantivano
anche la peer-review.
Fu solo nel periodo 1991-1995 che un grande editore
scientifico, Elsevier, si lasciò coinvolgere nella distribuzione on-line di riviste
elettroniche con il progetto TULIP e nel 1999 era già disponibili in rete circa 2000
e-journal di alcuni tra i maggiori editori internazionali.
Passato il primo periodo di scetticismo, gli editori avevano ormai definitivamente
occupato la nicchia dell’e-journal, applicandovi gli stessi criteri di qualità e di
sicurezza già definiti per le riviste a stampa.
Purtroppo avevano anche mantenuto
la stessa politica commerciale, per cui non di rado l’accesso alla versione on-line
delle rivista era preclusa a chi non era abbonato alla versione cartacea, quando
non si doveva pagare anche un supplemento.
L’e-journal ha indubbi vantaggi pratici sulla stampa: minore è il tempo di
pubblicazione e di distribuzione, i link ipertestuali permettono di ‘saltare’
rapidamente agli articoli citati in bibliografia o alle altre pubblicazione dello
stesso autore o della stessa testata, ma tutto ciò ad un costo per il lettore che i
sognatori di vent’anni prima non avevano messo in conto.
La tecnologia digitale e
il WWW non hanno, in realtà, risolto la crisi dell’editoria scientifica: le biblioteche
continuano ad avere problemi di finanziamento e i lettori continuano ad essere
travolti, forse ancor più di prima, dalla quantità di informazioni prodotte e
pubblicate, afflitti dal cosiddetto information overflow. Anche gli autori, nella
stretta del publish-or-perish, non godono ancora di grandi vantaggi in termini di
rapidità di pubblicazione.
Per cercare di ‘rompere’ il circolo vizioso, in parallelo alle riviste elettroniche
nacquero gli open archive: una sorta di database che rende disponibili in un sito
Internet articoli, abstract e rapporti tecnici redatti direttamente dagli autori,
sfuggendo quindi alla strettoia del processo di pubblicazione ‘classico’.
I principali
vantaggi sono la gratuità della pubblicazione e della lettura, e l’immediatezza
della disponibilità.
Il primo degli open-archive è stato fondato nel 1991 da Paul
Ginsparg, del Los Alamos National Laboratory, dedicato ad alcuni settori della
fisica.
Questa forma di pubblicazione ha avuto un certo successo ed ha permesso
di contrastare l’oligopolio degli editori commerciali, ma ha risolto solo
parzialmente alcuni aspetti della crisi.
Anche se certamente non comparabili alle pubblicazioni scientifiche, il WWW
mette oggi a disposizione altri strumenti innovativi di comunicazione. Cito qui
solo brevemente i blog e gli wiki.
I primi sono siti Internet personali, aperti o
meno al contributo di altri, oltre a quelli del loro autore. I secondi sono vere e
proprie enciclopedie on-line costruite con l’apporto di chiunque voglia prendersi
la responsabilità di redigerne, arricchirne o correggerne una qualsiasi voce.
Contrariamente a quanto si può pensare questa forma libera ed anarchica - e
gratuita - di pubblicazione non è di qualità significativamente peggiore di
un’opera editoriale classica, almeno stando a quanto suggerito da uno studio
della rivista Nature, che ha confrontato la più famosa delle wiki (Wikipedia) con la
storica Encyclopædia Britannica. (101)
Nuove tecnologie, vecchi e nuovi problemi.
Lasciando agli interventi che seguiranno un’analisi più competente ed
approfondita del mondo dell’editoria elettronica nel settore scientifico, del suo
impatto e delle più recenti prospettive di soluzione, vorrei terminare con un paio
di riflessioni.
La prima riguarda l’annoso problema dell’identificazione delle fonti, cioè la ricerca
degli articoli che rispondono alle necessità dello studioso.
Se è vero che, una volta
identificata la fonte, non è più necessario trovare la raccolta di quella rivista, ma
è possibile ricevere immediatamente l’intero articolo sul proprio computer, è
altrettanto vero che il più affidabile sistema di identificazione dell’informazione
bibliografica è ancora quello delle banche dati on-line di vent’anni fa.
I tentativi di
creare motori di ricerca ‘intelligenti’, basati sui concetti della artificial intelligence
e su nuove strutture del WWW (come ontologie, metadati, semantic web e
quant’altro) hanno prodotto risultati deludenti, almeno fino ad oggi.
Se non c’è il
contributo di un’intelligenza ‘naturale’ a classificare preventivamente il contenuto
semantico del documento e a codificarlo con ‘parole chiave’ controllate, nessun
motore di ricerca riesce ancora a dare risultati sufficientemente precisi e
completi. (102)
La seconda, ancora più preoccupante, riguarda la volatilità delle pubblicazioni
digitali, causata dalla cosiddetta digital obsolescence.
Cinquant’anni fa la
maggiore preoccupazione di un bibliotecario era la carta acida, che provocava un
precoce invecchiamento di libri e riviste.
Oggi si sta riproducendo esattamente lo stesso problema, ma molto più velocemente.
Per rendersene conto basta ricordare
cos’è il substrato fisico dell’e-publication: microscopici segni magnetici o ottici
registrati sulla superficie di un disco o di un nastro.
I segni sono scritti in codice
binario e, per ottenerli, si deve passare attraverso più fasi di codifica,103 che
dipendono sia dal software impiegato, sia dall’hardware del computer, sia dal
supporto fisico.
Per leggere il documento occorre quindi non solo disporre di un
hardware che riconosca il supporto, 104 ma anche del software che esegua le
esatte decodifiche.
Il risultato è che, essendo la durata media di una tecnologia
digitale di soli pochi anni, non possiamo già più leggere documenti elettronici
prodotti negli anni ottanta.
Il papiro di Ebers, per chi conosce lo ieratico egizio, può essere letto ancora oggi
col solo aiuto dei propri occhi, dopo trentacinque secoli; per il Dialogo di Galileo,
dopo quasi quattro secoli, basta saper leggere in italiano.
Si potrebbe obiettare
che, in considerazione del rapido avanzamento delle conoscenze, un articolo
scientifico di vent’anni fa è di scarsa utilità, ma se così veramente fosse, cosa ci
trattiene dal mandare al macero intere biblioteche? Non poche organizzazioni si
stanno occupando seriamente del problema, (105) ma le soluzioni proposte fino ad
ora, come quella di continuare a convertire i vecchi documenti alla comparsa di
ogni nuova tecnologia o quella di creare di volta in volta software di simulazione
dei precedenti strumenti informatici, comporteranno continue ed enormi spese:
chi le sosterrà?
Ringraziamenti
Un ringraziamento a Massimo Zaninelli per le costruttive critiche e gli utili suggerimenti
e a Silvana Giaretto per l’aiuto bibliografico.
Bibliografia e Webografia
La scrittura:
- Cajori F., “A History of Mathematical Notations”, Dover Pub. (1993);
- Fischer S.R., “History of Writing”, Reaktion Books (2004);
- Ifrah G. “Histoire universelle de chiffres”, Laffont (1994);
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______________________________________________________________________________-
Note
(1) Presentato a: "La Pubblicazione Scientifica in Medicina", Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell'Umbria e delle
Marche, Perugia, 6 luglio 2006.
(2) Il papiro di Ebers è un rotolo lungo 20 m. e largo 30 cm. Il testo vi è distribuito in 108 colonne di 20-22 righe. Il papiro
descrive 877 ricette per la cura di una grande varietà di malattie ed è il più vasto documento egizio di medicina. Può
essere datato nel IX anno del regno di Amenhotep (ca. 1534 a.C.), ma un suo frammento suggerisce un'origine vicina
alla I Dinastia (ca. 3000 a.C.). Le cure proposte per l'asma comprendono: il balsamo di mela, il sesamo ed il
franchincenso (una resina aromatica). Il papiro di Ebers è conservato nella biblioteca dell'Università di Lipsia.
(3) I quipu sono mazzetti di cordicelle recanti un certo numero di nodi. Già da tempo è stato riconosciuto il loro ruolo per
la rappresentazioni dei numeri. Secondo Gary Urton, professore di antropologia ad Harvard, i quipu conterrebbero 7
codici binari capaci di trasmettere più di 1500 unità di informazione, anche lessicali.
4 Op. cit.
5 In italiano si riconoscono circa 30 fonemi e in inglese circa 45. Due casi estremi sono la lingua Pirahã (parlata da circa
150 persone, in otto villaggi dell'Amazonia), che ne ha solo 10, e lo !Xù (parlata in Namibia ed Angola da circa
15.000 persone della tribù Saan) che ne ha ben 140.
(6) Altre linee di evoluzione parallele produssero diversi alfabeti. Oltre ad arabo, aramaico, ebraico e persiano,
discendenti più o meno diretti dal Fenicio, abbiamo il cirillico e il glagolitico nei paesi slavi e il futhark in Scandinavia,
entrambi derivati dal greco. L'unico 'alfabeto' non riconducibile al proto-sinaitico è lo hangul della Corea, risalente al
XV secolo d.C.
(7) Op. cit.
(8) La datazione esatta dei documenti indiani è molto difficile; la prima testimonianza scritta delle cifre indiane, databile
col nostro calendario, è dovuta al vescovo nestorianio Severus Sebokht, nel 662 d.C. Altre notazioni posizionali furono
inventate indipendentemente dai Babilonesi (con base 60), dai Cinesi (con base 10) e dai Maya (con base 20). Solo i
Maya e gli Indiani utilizzarono lo 'zero'.
(9) All'inizio del nono secolo lo studioso Abu Ja'fr Muhammad Ben Musa al Khuwarizmi (790- 850 d.C.) ne descrisse le
proprietà in un trattato dal titolo Kitab al jami' wa'l tafriq bi hisab al hind ("Tecniche indiane di addizione e
sottrazione"). Dal nome dello studioso deriva il termine 'algoritmo'. Al Khuwarizmi fu anche l'inventore dell'algebra,
disciplina che deve il nome al titolo del suo trattato Al-kitab al-mukhtasar fi hisab al-jabr wa'l-muqabalah, cioè " L'arte
di ridurre e di riunire".
(10) I numeri indo-arabici furono per la prima volta importati in Europa da Gerberto di Aurillac (ca. 955-1003) eletto poi
Papa Silvestro II; fu solo due secoli più tardi che Leonardo Pisano (1170-1240), detto Fibonacci, grazie ai suoi viaggi
in Egitto e in Siria, riscoprì i numeri arabi e li presentò ai matematici europei, nel suo Liber abaci del 1202.
(11) Pierre-Simon de Laplace (1749-1827), fisico e matematico francese che diede fondamentali contributi alla teoria della
probabilità e alla meccanica celeste.
(12) Per brevità, non si prenderà qui in considerazione un altro fondamentale aspetto dell'editoria: quello dei caratteri. E'
però indubitabile che la forma dei caratteri usati può rendere la lettura particolarmente agevole o disagevole, basta
provare a leggere un codice medievale per rendersene conto. Questo era dovuto anche alla produzione manuale dei
codici e solo con l'invenzione della stampa fu possibile progettare caratteri uniformi e di facile leggibilità.
(13) Si era nel 387 d.C.
(14) Tratto da: "Regole principali dell'Arte maggiore" di Pompeo Bolognetti, 1554.
(15) Era abbastanza comune chiamare cosa l'incognita (x) e numeri le costanti (p, q). Espressa simbolicamente, la lunga frase si può ridurre a :
dove l'equazione da risolvere è x3 + px = q.
(16) I segni + e - si fanno risalire a Nicola d'Oresme (1323-1382); il segno x di moltiplicazione a William Oughtred
(1574-1660); i due punti (:) per la divisione comparvero nel 1633 in un testo intitolato Johnson Arithmetik; Nicolas
Chuquet (1445-1500) usò per primo l'apice numerico per indicare le potenze nel suo Le Triparty en la Science des
Nombres del 1484.
(17) François Viète (1540-1603), matematico e uomo politico francese.
(18) Ancora oggi non tutti usano gli stessi segni, basti pensare alla moltiplicazione (x o . ) ed alla divisione (: o /) o, più
semplicemente, all'uso della virgola e del punto come separatori dei decimali e delle migliaia.
(19) Ai tempi di Roma esistevano già pubblicazioni a basso costo e l'editoria, basata su copie prodotte da schiavi, era un
fiorente e redditizio commercio. Il poeta Marziale si lamenta che un suo libro di epigrammi fosse venduto al prezzo di
soli sei sesterzi (l'equivalente di 18 centesimi di Euro) e che molte pubblicazioni finissero sui banchi dei macellai per
incartare la carne!
(20) Ancor prima dei caratteri mobili, fin dal VI secolo, si usava in Cina la "xilografia a pagina" ottenuta con matrici di
legno incise che stampavano l'intero foglio. Non era quindi possibile riutilizzare la stessa incisione per pagine diverse.
Il più antico testo a noi pervenuto e stampato con questa tecnica è il 'Sutra del Diamante', testo buddista dell' 868 d.C.
(21) Vedi Nota 6.
(22) Il nome di Gutenberg non è mai apparso sul frontespizio di alcun libro. I documenti coevi che menzionano Gutenberg
sono una quarantina, ma nessuno di essi lo definisce inventore della stampa.
(23 ) Potrebbe essere tradotto in: Giovanni Carnedoca da Buonmonte.
(24 )Per una trattazione tecnica dell'invenzione della stampa si veda: Singer, C. (op. cit.). Per le diverse ipotesi
sull'invenzione della stampa si vedano anche i siti Internet elencati in bibliografia.
(25) Questa versione sembra poco attendibile, il ricco Fust che fornì il capitale a Gutenberg difficilmente poteva essere il
povero lavorante di Coster.
(26) Anche in Europa, prima di Gutenberg, era in uso la "xilografia a pagina" per stampare carte da gioco ed immagini
sacre. La presenza di questa tecnologia, che precorre quella a caratteri mobili, può aver generato qualche confusione che
spiegherebbe le discordanze sulla priorità dell'invenzione. Stampi di legno erano usati anche nei manoscritti per
imprimere sulle pergamene i modelli dei capilettera che il 'rubricatore' rifiniva e colorava a mano.
(27) Per la sua Bibbia, Gutenberg usò 300 diversi caratteri che riproducevano anche le varie 'legature' tra le lettere,
imitando i codici medievali.
(28 )Tra quelli che furono allievi di Gutenberg ed ex-lavoranti della ditta Gutenberg-Fust ci furono Schöffer a Magonza
(nipote di Fust, 1457), Mentel a Strasburgo (1460), Pfister a Bamberg (1461), Sweynheim a Subiaco (1461) e von
Speyer a Venezia (1469). Questa diaspora di tipografi fu dovuta in parte al sacco di Magonza, perpetrato dalle truppe di
Adolfo di Nassau nel 1462, ed alla conseguente recessione economica della città. Dal XVI secolo sono giunti fino a noi
i nomi di più di mille tipografi tedeschi, almeno un centinaio operanti in Italia.
(29) Desiderius Erasmus da Rotterdam (1469-1536), nome latinizzato di Geert Geertsz, umanista olandese. La sua opera
più conosciuta è l'Elogio della follia.
(30) Osservando certi scaffali delle librerie dei nostri giorni si è tentati di condividere le preoccupazioni di Erasmo!
(31) Seguito, nel 1710, dallo 'Statuto di Anna', che gettava le basi dell'odierna legislazione sul copyright.
(32) Secondo M. McLuhan fu invece proprio la stampa a permettere un più efficiente controllo governativo sulle masse
(Op. cit.).
(33) Erodoto (484-425 a.C.), nelle sue Storie, afferma che l'uso di pelli di animali era già comune nel suo tempo, mentre
secondo Plinio il vecchio (23-79 d.C.), nella Historia naturalis, la pergamena fu inventata sotto il regno di Eumene di
Pergamo nel III secolo a.C.
(34) Per un testo come la Bibbia di Gutenberg sono necessarie 300 pecore.
35 Qualche autore anticipa l'invenzione della carta in Cina al I secolo a.C. Durante la sua permanenza nel Catai (1271-
1288), Marco Polo (1254-1324) doveva aver appreso che le 'banconote' là in uso erano stampate su carta con la tecnica
xilografica.
(36) Il 'Messale Mozarabico' del Monastero di San Domenico di Silos (Andalusia) è il più antico codice europeo su carta,
a noi pervenuto. Le sue caratteristiche paleografiche e il fatto che la liturgia mozarabica fosse stata abolita in Spagna dal
1080 da papa Gregorio VII, mostra che il Messale doveva essere precedente a tale data. Il termine 'mozarabico' si
riferisce al rito cristiano in uso in Spagna durante la dominazione musulmana.
(37 )Sembra, per la prima volta, a Genova nel 1250.
(38) Proprio dall'uso della 'polpa' deriva il termine inglese pulp-fiction per indicare la letteratura che noi chiameremmo
'romanzi popolari'. Si trattava infatti di libri a basso costo (e di discutibile qualità letteraria) resi possibili dal basso
prezzo della carta prodotta col nuovo metodo.
(39) Il termine 'scienziato' entrerà nell'uso solo nel XIX secolo.
(40) Fare oroscopi era considerato, all'epoca, un'attività istituzionale del matematico, che contribuiva al suo
sostentamento. Sappiamo però che nel 1630 Galileo rifiutò di mandare un oroscopo a Tommaso Campanella dicendo di
non crederci.
(41) Isaac Newton (1643-1727). Accanto allo scienziato troviamo un grande esperto di alchimia e di "magia naturale".
(42) Sir Francis Bacon (1561-1626). Tra le sue opere ricordiamo il Novum Organum (1620) e il De dignitate et augmentis
scientiarum (1623). Leggende vogliono che fosse figlio naturale della regina Elisabetta e che fosse il segreto autore
delle opere attribuite a Shakespeare.
(43 )Ludovico Vives (1492-1540) incitava già i filosofi a porre attenzione ai problemi tecnici e ad "abbassare gli occhi sul
lavoro degli artigiani e non vergognarsi di chiedere ad essi spiegazioni".
(44) Robert Boyle (1627-1692), fisico e chimico inglese, noto per i suoi esperimenti sui gas e per la omonima legge che
mette in relazione la pressione e il volume di un gas a temperatura costante: p*v = k.
(45 )Molte riviste scientifiche europee si intitoleranno proprio 'Comptes Rendu' o 'Rendiconti'.
(46) Solo nel 1489 la famiglia Tasso, di origini bergamasche, ottenne dall'imperatore Massimiliano I il privilegio di
gestire un servizio postale esteso all'intero Sacro Romano Impero, anche per la corrispondenza privata. Tale impresa,
che impiegava ben 20.000 addetti, permetteva di inviare missive dalla Spagna all'Ungheria o dall'Olanda all'Italia in
pochi giorni. Precedentemente solo i governanti, i mercanti e i banchieri disponevano di propri servizi postali che
trasportavano lettere e plichi con una certa regolarità.
(47) In alcune situazioni gli autori ricorrevano alla scrittura in codice per assicurarsi la segretezza, proteggere i propri
scritti dalla copia dei concorrenti e garantirsi la priorità delle scoperte. Così fu per Galileo, quando usò un anagramma
per comunicare a Giuliano de' Medici la scoperta dei satelliti di Giove.
(48) In Italia la prima società scientifica fu l'Accademia dei Lincei di Roma (1603-1651) seguita dall'Accademia degli
Investiganti di Napoli (1650) e poi dall' Accademia del Cimento di Firenze (1657-1667). Nel 1609 i Lincei
pubblicarono i Gesta Lynceorum che fu il primo esempio di organo ufficiale di una società scientifica.
(49) Denis de Sallo (1626-1669), politico e letterato francese. Anche l'Accademia del Cimento pubblicò in suoi Atti nel
1667.
(50) La Académie des Sciences deve la sua nascita ad un progetto del ministro Colbert che, il 22 dicembre 1666, riunì un
piccolo gruppo di dotti nella Biblioteca Reale. Nel 1699 il Re Sole diede alla società il suo primo regolamento.
(51 )Per molto tempo ed in molti casi, la struttura degli articoli pubblicati sulle riviste scientifiche rimase quella della
lettera quasi a continuare la corrispondenza tra dotti dei tempi precedenti. Ancora oggi la rivista Nature pubblica una
parte dei contributi sotto il titolo di Letters.
(52) Henry Oldenburg (1618-1677), diplomatico e filosofo naturale. Nato a Brema, studiò teologia e poi si trasferì in
Inghilterra. Fu uno dei primi membri della Royal Society e il suo primo segretario.
(53) Nel 1645, a Londra, si tenevano informali incontri settimanali in cui si riunivano le persone interessate alle nuove
scienze sperimentali. Nel 1660 gli incontri furono formalizzati con la fondazione della Royal Society che ebbe il
riconoscimento reale nel 1662. La Royal Society, fin dalle sue origini, adottò i principi sostenuti da Francis Bacon.
(54) Questo numero è comprensivo di tutte le riviste che trattano di una qualsiasi 'scienza' e si riferisce a tutte quelle
fondate, senza tener conto delle testate che hanno terminato le pubblicazioni. (da D. de Solla-Price, "Sociologia della
creatività scientifica", 1967).
(55) Leonardo da Vinci (1452-1519) non imparò mai bene il latino e si definì "omo sanza lettere". Nel 'Codice
Trivulziano'', troviamo lunghi elenchi di ben 8.000 vocaboli dotti. Leonardo non pubblicò né distribuì i contenuti dei
suoi appunti, che rimasero sconosciuti fino al XIX secolo e non ebbero alcuna influenza diretta sullo sviluppo della
scienza e della tecnologia. Su queste basi, L. Sprague de Camp, nel suo libro Gli antichi ingegneri (Op. cit.), considera
Leonardo non il primo degli ingegneri moderni, ma "l'ultimo di quelli antichi". Per spiegare la scrittura speculare di
Leonardo, recenti studi propongono la tesi che fosse affetto da una forma di 'dislessia', ma sembra un'ipotesi poco
convincente.
(56) Giorgio Bauer, detto Agricola, (1490-1555). Scrisse un approfondito trattato sull'attività mineraria e sulla
metallurgia, illustrato con molte raffinate xilografie.
(57) Aristotele, Fisica, 249b.
(58) Philosophiae Naturalis Principia Mathematica.
(59) P. Rossi "I meccanici, gli ingegneri, l'idea di progresso", in P. Rossi 1988, op. cit.
(60) Carl von Linneé (1707-1778), naturalista olandese.
(61) Antoine-Laurent de Lavoisier (1743-1794) spesso indicato come il 'padre' della chimica moderna. Enunciò la prima
versione della legge di conservazione della massa, scoprì l'ossigeno e contribuì a riformare la nomenclatura chimica.
(62) Un'analisi delle illustrazioni dei libri non può prescindere da quella delle arti figurative del tempo, soprattutto della
pittura.
(63) Agostino Ramelli (1531-1608), ingegnere militare Ticinese al servizio di Enrico III, re di Francia e Polonia. Tra gli
eccezionali esempi di illustrazione scientifica si ricordano anche il De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, del
1543 e la Micrographia di Robert Hooke del 1665.
(64) L'invenzione della stampa, in realtà, rese più problematico inserire illustrazioni nei libri. Non era facile assemblare,
nella composizione tipografica della pagina, le xilografie, le litografie o altre tecniche di riproduzione dei disegni.
Spesso le tavole erano prodotte a parte, rifinite e colorate a mano, e vendute separatamente dal volume.
(65) William Playfair (1759-1823), ingegnere ed economista scozzese, nel 1801 pubblicò uno Statistical Breviary.
(66) La statistica, fondata matematicamente da Blaise Pascal (1623-1662) e Jakob Bernoulli (1654-1705), prima che per le
scienze esatte fu utilizzata per l'analisi dei dati demografici ed economici, col nome di "aritmetica politica". Il termine
stesso 'statistica' è correlato a "stato" e "statista" e fu per la prima volta introdotto da Gottfried Achenwall (1749) a
designare l'analisi dei dati relativi alla cosa pubblica. La fiducia illuminista nel determinismo disincentivava, all'epoca,
l'uso della statistica per i dati scientifici.
(67) Kronick D.A. 1990, op. cit.
(68) Uno standard che spesso sfocia in una eccessiva uniformità strutturale e lessicale.
(69) Parametro che rappresenta numericamente l'importanza di una rivista scientifica, calcolato sulla base della quantità di
citazioni degli articoli ivi pubblicati.
(70) La Seconda Guerra Mondiale e, ancor più, la Guerra Fredda furono un tale stimolo alla ricerca che la produzione di
letteratura scientifica crebbe smisuratamente. Oltre a libri e riviste occorre tener conto anche dei rapporti tecnici, dei
brevetti, ecc.
(71) Tra i più antichi indici bibliografici in ambito bio-medico, è da ricordare l'Index Medicus, fondato nel 1879 da John
S. Billings., trasformatosi poi nel telematico Medline.
(72 )Jean-Claude Guédon, op. cit.
(73 )Op. cit.
(74) Paul Otlet (1868-1944) , avvocato belga che fondò nel 1895, assieme a Henri La Fontaine, l'Istituto Nazionale di
Bibliografia (ancora esistente col nome di F.I.D.) e sviluppò la Classificazione Decimale Universale.
(75) P. Otlet, "Essaie d'universalisme", (1935). Un altro utopista condivideva le sue idee: lo scrittore H.G. Wells, noto ai
più come autore di fantascienza. Wells lamentava che : "L'assemblaggio e la distribuzione del sapere nel mondo sono
oggi estremamemente inefficienti… ".
(76) Nel 1945 Bush scrisse:"[il cervello umano] opera per associazione. Con un elemento di informazione in pugno, esso
salta istantaneamente a quello successivo, che gli viene suggerito dall'associazione di pensieri in accordo con un
intricato incrocio di percorsi costruiti dalle cellule del cervello" ("As we may think", Atlantic Monthly, 1945).
(77) Il MEMEX non fu mai costruito, ma alcuni dei suoi meccanismi furono sfruttati dai servizi segreti americani per
decrittare i codici segreti tedeschi e giapponesi.
(78) Fino al 1950 il termine computer indicava l'impiegato o, più spesso, l'impiegata, che svolgeva, a mano o con l'ausilio
di calcolatrici meccaniche, le operazioni aritmetiche per la contabilità, l'ingegneria ecc. Nell'edizione del 1960
dell'Oxford Dictionary compare ancora tale definizione. L'equivalente francese 'ordinateur' fu coniato dal linguista
Jacques Perret su richiesta della IBM che voleva evitare di inimicarsi i contabili, proponendo macchine che avrebbero
potuto sostituirli.
(79) A. C. Clarke (1917-) è uno dei più noti scrittori di fantascienza, autore fra l'altro del breve racconto "La sentinella"
del 1952, a cui si ispirò il regista Stanley Kubrick per il film "2001 Odissea nello spazio".
(80) Charles Babbage (1791-1871) fu un matematico inglese dai poliedrici interessi. Verso il 1840 progettò un calcolatore
programmabile automatico per uso generale (cioè un 'computer') interamente meccanico, battezzato 'Analytical
Engine'. In mancanza degli elevatissimi finanziamenti necessari non potè mai costruirlo, ma il suo progetto incorporava
già, in un certo senso, la stessa architettura logica che sarà poi lo standard dei computer elettronici attuali.
(81) Nel pieno della II Guerra, in Germania, tra il 1941 e il 1944, un ingegnere di nome Karl Zuse costruì in proprio
diverse versioni di un calcolatore automatico progammabile, l'ultima delle quali, battezzata Z4, sopravvisse alle
distruzioni belliche e divenne operativa nel 1948 al Politecnico di Zurigo. Fino al 1951 rimase l'unico computer
funzionante dell'Europa continentale. In USA il primo calcolatore programmabile fu lo Harvard Mark I (1944), seguito
da ENIAC nel 1946. In Inghilterra furono costruiti lo EDSAC (1949) e il Manchester Mark I (1949).
(82) La parola 'informatica' è di origine francese: 'informatique', che sta per 'information automatique' ed è dovuta a
Philippe Dreyfus (direttore del Centro di Calcolo Elettronico della Bull) nel 1962.
(83) Non erano dei veri e propri computer, ma permettevano operazioni automatiche come la selezione e il riordinamento.
(84) Il termine fu usato per la prima volta dal marketing dell'IBM per definire la modalità elettronica di comporre,
revisionare, correggere e stampare documenti scritti. Era la traduzione dal tedesco textverabeitung, coniato negli anni
'50 da Ulrich Steinhilper, ingegnere all'IBM.
(85) Il famoso primo messaggio si bloccò dopo il terzo carattere! Chissà quanti avrebbero esclamato "questa cosa non ha
possibilità" ! Il senatore Edward Kennedy inviò un telegramma di congratulazioni alla BBN per il suo contratto da un
milione di dollari con l'ARPA "… per costruire l'Interfaith Message Processor" ringraziando per l'impegno
ecumenico! [Kennedy fraintese Interface (interfaccia) con Interfaith (che significa "fra le fedi")] (da Hobbe's Internet
Timeline, Ver. 5.4).
(86) Research And Development, istituto di ricerca militare.
(87 )Joseph Carl Robnett Licklider (1915-1990), fu uno delle personalità più influenti per lo sviluppo dell'informatica
negli USA. Come direttore dello Information Processing Techniques Office (IPTO), divisione della ARPA, negli anni
'60 approvò il finanziamento di molti progetti avveniristici che porteranno, fra l'altro, ad Internet, alle interfacce
grafiche, al mouse, all'ipertesto. Non è esagerato dire che la superiorità che gli USA raggiunsero e mantennero nel
settore fu dovuta, in gran parte, all'IPTO.
(88) J.C.R. Licklider, "Man-Computer Symbiosis" (1960) e "On-Line Man Computer Communication" (1962). Nel 1968,
Licklider e Robert Taylor (suo successore all'IPTO) pubblicarono il dirompente articolo "The Computer as a
Communication Device" .
(89) Tra i tanti 'padri' di ARPAnet (e quindi di Internet) non si possono dimenticare Vinton Cerf, John Postel, Larry
Roberts, Bob Kahn, Leonard Kleinrock e Douglas Engelbart.
(90) UCLA, UCSB, SRI e l'Università dello Utah.
(91) Durante la International Conference on Computer Conmmunications (Washington).
(92) La leggenda sul primo messaggio di posta elettronica racconta che nel 1973 Leonard Kleinrock fosse appena
ritornato dall'Inghilterra dove aveva partecipato ad una conferenza nella quale si era stabilito un collegamento
satellitare con ARPAnet negli USA. Appena sbarcato a Los Angeles, Kleinrock si accorse di aver dimenticato
nell'albergo inglese il proprio rasoio elettrico, utilizzò quindi il link sperimentale per inviare un messaggio
all'Università di Londra chiedendo di spedirgli il rasoio. Il messaggio fu ricevuto ed il rasoio fu spedito in California.
(93) Anche il termine 'telematica' è di origine francese. Telematique è una sintesi tra "telecommunication' e
"informatique", coniata da Simon Nora e Alain Minc nel loro libro "L'informatisation de la Societe" (1978).
(94 )Douglas C. Engelbart (1925-) è un inventore americano di origine norvegese. Ispirato da V. Bush, la sua filosofia è
espressa nell'opera: Augmenting Human Intellect: A Conceptual Framework, del 1962.
(95) Era l'epoca dei 'figli dei fiori' e dell'uso dello LSD, soprattutto sulla West Coast. Le droghe erano considerate
'espansori' delle capacità intellettuali.
(96) Lo 'Alto' fu un insuccesso per l'elevato costo e per la scarsa lungimiranza del top management della Xerox.
(97) E, infine, anche Microsoft Windows (1985).
(98) Ted Nelson aveva, ed ha ancora oggi, un'idea molto particolare del suo ipertesto e non ne riconosce la struttura nel
World Wide Web reale. Perfezionista all'estremo, il suo lavoro è stato più che altro teorico (progetto Xanadu) e non ha
mai prodotto alcun risultato pratico. Nel 1967 A. Van Dam creò HES (Hypertext Editing System), un sistema di
creazione di strutture ipertestuali per il mainframe IBM S/360. Il primo programma commerciale per ipertesto fu
realizzato dalla Xerox nel 1985 col nome di NoteCards e il primo che ebbe successo fu Hypercard scritto da Bill
Atkinson per il Macintosh, nel 1987.
(99 )Il primo network di pubblicazione online, rivolto ad una comunità delimitata ma aperta di ricercatori risale alle orgini
di ARPAnet. Si tratta delle Requests For Comments (RFC), in cui gli architetti della rete scambiavano suggerimenti,
soluzioni ed idee e le sottoponevano a reciproca critica. Proprio nelle RFC si trovano i documenti fondamentali dei
protocolli di rete, tra cui ad esempio quello di Tomlinson per la posta elettronica. Le RFC sono ancora disponibili
all'indirizzo: http://www.rfc-editor.org/rfc.html.
(100) Era necessario un software dedicato per poterla leggere, poiché lo World Wide Web non era ancora disponibile.
(101) Giles J., "Internet encyclopaedias go head to head", Nature 438, 900-901, 15 dicembre 2005. La metodica e i
risultati, dello studio sono stati rigorosamente criticati dagli editori della Britannica (in "Fatally flawed. Refuting the
recent study on encyclopedic accuracy by the journal Nature", http://www.britannica.com/). Anche tenendo conto delle
corrette obiezioni della Britannica, la differenza tra le due pubblicazioni non è però così abissale come ci si potrebbe
aspettare.
(102) Per una trattazione, vedi, ad esempio, Garshol L.M., "Metadata, Thesauri, Taxonomies, Topic maps",
(http://www.ontopia.net/topicmaps/materials/tm-vs-thesauri.html) o "Web Publishing: Metadata, Ontologies and
Semantics" dello World Wide Web Consortium (http://www.w3c.rl.ac.uk/pasttalks/slidemaker/EPS_DTI/slide1-
0.html).
(103) La digitazione o scansione dell'originale, la assegnazione dei markup e dei tag, la compressione del codice,
l'eventuale protezione criptografica, ecc.
(104) In venticinque anni siamo passati attraverso tre generazioni di dischetti magnetici (da 8, da 5 e da 3,5 pollici) e due
generazione di supporti ottici (CD e DVD), senza contare una moltitudine di altre forme (nastri, cassette, memorie flash
ecc.). Molti nuovi supporti sono già previsti nell'immediato futuro, non sempre compatibili con gli attuali lettori.
(105) Si veda, tra gli altri, la voce 'Digital Preservation.' in Wikipedia (www.wikipedia.org), il manuale "Guidelines for
the preservation of digital heritage" dell'UNESCO, "DigitalPreservation Mangement" della Cornell University
(http://www.library.cornell.edu/iris/tutorial/dpm/) o il sito della Digital Preservation Coalition
(http://www.dpconline.org/graphics/index.html).