Sanità Pubblica Veterinaria [http://spvet.it/], n. 37, Settembre 2006
CONVEGNO: LA PUBBLICAZIONE SCIENTIFICA IN MEDICINA: TOOLS PER L’AUTORE,
6 luglio 2006 - Aula Magna della Facoltà di Agraria, Borgo XX Giugno 74, Perugia
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From Sinai desert to Silicon Valley(1)
Dal deserto del Sinai alla Silicon Valley



Silvio Hénin
silvio.henin [] fastwebnet.it


Testo della relazione in formato pdf [522 KB]


Summary: The cultural evolution of the society has, as prerequisite, the gather of efficient tools for the transmission of the information.
Undoubtably the first of these has been the complex one psychic system and neuromuscolar that it has allowed the birth of the language and, therefore, the oral, "transversal" and "vertical" transmission, of the ideas.
Following "instruments" will be technological and will set free the man from the scarce reliability of his memory.
The writing, perhaps invented for the first time in the Mesopotamia area (eighth millennium B.C.), allowed to record facts and ideas, but also contributed to a better degree of abstraction of the human thought.
Printing (together to the invention of the paper), from the XV century allowed the exponential increment of circulation of the texts, dropping the costs of production.
Finally, the digital elaboration of the information, along with the telephone and radio transmissions, made possible e-books, the e-journals and the World Wide Web arise, increasing the accessibility of the knowledge for a huge number of people.
Of these technologies will be examined the story, the impact on human culture, advantages and drawbacks.


Tempo presente e tempo passato
sono forse entrambi presenti nel tempo futuro
e il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.
T. S. Eliot


Introduzione
Esaminiamo due testi di medicina che distano nel tempo più di 3500 anni.
Il primo è il “Papiro di Ebers”, un rotolo di 20 metri scritto in caratteri ieratici che risale al XVI secolo a.C. e che può essere considerato la summa del sapere medico dell’epoca (2).
Da questo antico documento estraiamo, ad esempio, il frammento dedicato alla cura dell’asma. Anche il secondo testo tratta della stessa affezione respiratoria, ma è un articolo del 2006, pubblicato nello e-journal “Environmental Health Perspectives”.
Entrambi i documenti affrontano lo stesso argomento anche se, ovviamente, in modo molto diverso.

Ma è solo il contenuto che differenzia i due testi? Quanti altri aspetti sono cambiati nella letteratura scientifica durante i trentasei secoli che li separano?
Proviamo ad elencarne alcuni, dai più ovvi ai meno. Certamente è diversissimo il supporto fisico: segni di inchiostro su un papiro in un caso e immateriale flusso di bit nell’altro. Diverso è il metodo di produzione: paziente tracciatura di segni da parte di uno scriba nel primo, digitazione sulla tastiera del computer nel secondo. Differenti sono la lingua e la scrittura usata per esprimerla. Diversissimi sono il linguaggio, la forma e lo stile usati per comunicare.

Inconciliabile è la destinazione dei due testi: segreto da mantenere nella cerchia di pochi adepti il papiro, espressamente destinato alla più larga comunità possibile l’articolo dell’ejournal. Ancora diverso è il percorso del prodotto letterario: frutto del lavoro individuale il primo, risultato di un complesso e organizzato sistema editoriale il secondo.

Quella che segue è la brevissima – e largamente incompleta - storia delle innovazioni tecnologiche e di pensiero che hanno portato dal papiro all’e-journal, delle loro motivazioni e dell’influenza che queste hanno avuto sul modo di comunicare il sapere scientifico.

La scrittura
Non esiste quasi nessuna civiltà complessa ed organizzata, dall’affermarsi dell’agricoltura in poi, che non abbia inventato una sua forma di scrittura.
Da ipotesi recenti sembra che persino quella che restava una delle rare eccezioni - la civiltà incaica delle Ande - potrebbe aver fatto uso delle cordicelle annodate (i quipu) per rappresentare non solo i numeri, ma anche il linguaggio (3).

Le origini
delle diverse forme di scrittura, tutt’ora oggetto di speculazione, sono certamente da ricondurre al bisogno di ‘fissare’ o ‘trasmettere’ informazioni, prima che conoscenze, tramite segni, simboli o pittogrammi. Una delle forme più antiche di scrittura, il cuneiforme assiro, sarebbe l’evoluzione di un primitivo sistema di annotazione contabile di derrate alimentari (4).
Altre scritture, come il geroglifico egizio, i logogrammi cinesi e i glifi dei Maya, sarebbero invece scaturite da finalità di carattere religioso o di celebrazione di re e governanti umani. Molte delle forme di scrittura – anche se diffusamente usate ancor oggi - mostrano però limiti nella loro capacità di rappresentare tutte le potenzialità della lingua parlata, rendendo ardua la rappresentazione di neologismi o permettendo ambiguità interpretative, entrambi fattori che incidono negativamente sull’efficienza a trasmettere contenuti tecnico-scientifici.

L’alfabeto
Fu nel deserto del Sinai, circa nel 1800 a. C. , che la scrittura subì un’evoluzione sostanziale: una comunità di minatori di lingua semitica, probabilmente schiavi degli Egiziani, prese a prestito alcuni dei geroglifici dei loro padroni e, invece di utilizzarli per esprimere intere parole, li usò ciascuno per rappresentare un diverso suono (fonema) della propria lingua.
Nacque così l’alfabeto proto-sinaitico.

Il vantaggio dell’alfabeto è intuitivo: in una determinata lingua i fonemi sono relativamente pochi (5), certamente molti meno delle parole, e sono più stabili nel tempo. Con l’alfabeto qualunque nuova parola, anche mai articolata prima, poteva essere rappresentata usando sempre gli stessi 20 – 30 segni.
Ciò garantisce, oltre alle infinite possibilità di seguire l’evoluzione della lingua parlata anche in ambiti specialistici, la facilità dell’apprendimento e, più in generale, la rapidità della lettura e della scrittura.
In sostanza, il collegamento tra lingua parlata e lingua scritta non necessita più dell’intermediazione di uno specialista, ma può essere effettuato con sicurezza da chiunque, previo un breve apprendimento.

Il proto-sinaitico fu il capostipite di molte altre scritture ‘alfabetiche’ e, per quasi quattro millenni, continuerà ad evolversi.
Anche se nel nostro alfabeto si possono riconoscere alcuni dei segni di allora, il loro valore fonetico è cambiato molte volte per adattarsi alle differenti lingue parlate che si sono volute con esso rappresentare.
Le tribù semitiche trasmisero l’alfabeto ai Fenici e questi ai Greci,i quali introdussero un’altra fondamentale innovazione: le vocali. L’alfabeto fenicio, come ancora avviene per l’ebraico e l’arabo moderni, era puramente consonantico - struttura ereditata dalla scrittura egizia - , ma questa caratteristica permetteva ambiguità (come se in italiano scrivessimo ‘cono’, ‘cane’ e ‘conio’ allo stesso modo).
I Greci, circa nel IX secolo a.C. , adattarono alcuni segni del fenicio, inutilizzati nella propria lingua, per rappresentare le vocali. Dai Greci l’alfabeto si trasmise agli Etruschi e ai Latini.
L’imperialismo della piccola nazione del Tevere diffuse l’alfabeto romano in tutta l’Europa occidentale e, quindici secoli più tardi, la colonizzazione europea in Oriente e nel Nuovo Mondo lo esportò in molte altre regioni (6). Raramente però l’alfabeto latino riuscì a soppiantare precedenti forme di scrittura, che erano divenute ormai elemento sostanziale delle culture locali.

I numeri.
Nei documenti tecnico-scientifici la rappresentazione scritta dei numeri è importante tanto quella delle parole.
Difficile è raccontare la storia delle notazioni numeriche in così breve spazio - basti pensare che lo storico Georges Ifrah vi dedica ben seicento pagine nel suo ponderoso “The Universal History of Numbers” (7) - ma cercherò di concentrarmi sugli aspetti più rilevanti, limitandomi a cenni sulla cosiddetta ‘notazione posizionale’.
Con questo termine si indica il sistema che utilizza segni il cui valore dipende, non solo dal segno stesso, ma anche dalla posizione che questo occupa (ad esempio, nel numero 3378 il primo 3 indica tremila, mentre il secondo 3, alla sua destra, rappresenta trecento).
La superiorità della notazione posizionale è evidente: con soli dieci segni diversi (0, 1, 2 ….9) possiamo scrivere qualunque numero; allo stesso modo con cui l’alfabeto, come abbiamo visto, permette di scrivere qualunque parola con meno di una trentina di segni.

La notazione posizionale comparve in India a tra il IV e il VI secolo d.C. (8) e fu adottata dagli arabi, dai quali prese il nome di cifre arabe. (9)
Questi la trasmisero all’Europa cristiana nell’undicesimo secolo, (10) dove la sua accettazione fu molto lenta e solo nel Seicento sostituì definitivamente l’inefficiente numerazione romana. Secondo il matematico Laplace: “ … l’idea di esprimere tutte le quantità con nove [sic.] cifre, dove si impartisce ad esse sia un valore assoluto, sia uno dovuto alla posizione è così semplice che la sua stessa semplicità è la ragione per cui non siamo sufficientemente consci dell’ammirazione che si merita. (11)
Diversamente dall’alfabeto latino, le cifre indiane, hanno preso il posto di quasi tutte le altre notazioni e in tutto il mondo, forse per la minor valenza culturale dei numeri rispetto alle parole.
Credo opportuno sottolineare che l’introduzione della notazione posizionale non solo permise di scrivere i numeri in modo più efficiente e preciso, ma aprì la strada ad un grande passo avanti della matematica: la fondazione dell’algebra.
Non sembra azzardato affermare che, a volte, il ‘mezzo’ non si limita ad adattarsi ai fini del momento, ma apre la strada a nuovi e più avanzati obiettivi. Altri segni.
Analizzando l’articolo scientifico moderno ci accorgiamo che, oltre a lettere e numeri, si trovano sparsi nel testo molti altri segni, come i simboli matematici ed i segni di interpunzione.
Entrambi sono raramente presenti nei documenti precedenti al XV secolo della nostra Era, scientifici o letterari che siano. (12)
Le prime forme di scrittura erano infatti prive di punteggiatura, la cui origine, databile nel periodo ellenistico di Alessandria e in quello della Roma imperiale, scaturì principalmente dal bisogno di aiutare il lettore nella lettura pubblica ‘ad alta voce’ dei testi, come ausilio all’arte della retorica.

Si ricorda che, anche presso i dotti, i casi di lettura silenziosa erano così rari che il giovane Agostino di Ippona rimase attonito alla vista di Ambrogio di Milano che leggeva ‘senza emettere un suono’ (13) Solo con l’invenzione della stampa la punteggiatura divenne uno standard nella stesura dei testi, assumendo però una funzione completamente diversa, quella di aiutare a formulare le frasi in modo più logico e stringato, lasciando meno spazio all’interpretazione.
Più importante per le scienze fu l’invenzione dei simboli matematici. Fino al XV secolo i libri di geometria e di aritmetica, dai Mesopotamici, agli Arabi ed ai matematici medievali europei, erano scritti in stile ‘retorico’. Per fare un esempio, si consideri il seguente periodo (14): “Quando le cose e li cubi si eguagliano al numero, ridurrai l’equazione a 1 cubo partendo per la quantità delli cubi, poi cuba la terza parte delle cose, poi quadra metà dil numero e questo suma con il detto cubato, et la radice di detta summa più la metà del numero fa un binomio et la radice cuba di tal binomio, men la radice cuba del suo residuo val la cosa”.

E’ arduo riconoscervi quella che oggi chiameremmo ‘risoluzione di un’equazione di terzo grado’ (15).
I simboli matematici, anche i più elementari come il ‘+’ e il ‘-’, cominciarono ad apparire solo dopo il XIV secolo (16) e la notazione simbolica algebrica che noi conosciamo fu impostata da Viète (17) nel Cinquecento e deve la sua standardizzazione a Cartesio nel suo “Geometrie” del 1637. (18)
Presto l’algebra ‘sincopata’ rimpiazzò completamente quella ‘retorica’.
Scrittura, numeri, interpunzioni e simboli matematici, tutto lentamente contribuì a migliorare l’efficienza della registrazione e della comunicazione del sapere. Leggere - e quindi capire - un testo scientifico diventò lentamente più agevole, almeno tra i dotti, e ci furono meno possibilità di errore interpretativo. Lo scritto divenne più ‘compatto’, meno ridondante e meno ambiguo.
Basterà tutto ciò ad aiutare la diffusione e lo sviluppo delle conoscenze scientifiche? Vedremo che ci saranno altri ostacoli da superare.

La stampa
Per convenzione, si suole stabilire il confine tra Medioevo ed Era Moderna nel 1492, anno della scoperta del Nuovo Mondo. Se tutte le convenzioni sono discutibili, quelle delle epoche storiche sono, a dir poco, ridicole, ma se proprio si deve stabilire una data, proporrei il 1455, anno in cui comparvero a Magonza le prime copie della “Bibbia delle 42 linee” stampate, si dice, da Gutenberg.
Fino a quel momento i libri, come si sa, erano prodotti manualmente da pazienti amanuensi, generalmente membri di ordini monastici.
Rari erano i copisti privati nel medioevo, che lavoravano su commissione di nobili e ricchi borghesi, e solo dopo il XIII secolo si conoscono esempi di produzione commerciale di manoscritti, soprattutto per far fronte alle necessità delle università, delle cancellerie reali e dei tribunali.
I problemi generati da questo sistema erano molteplici: costo elevato, scarsa produttività, frequenti infedeltà al testo originale, solo per citarne alcuni. (19)

I caratteri mobili
Come spesso avviene per le innovazioni a grande impatto economico e sociale - dal telefono, alla radio, al computer – anche la storia dell’invenzione della stampa, è oggetto di discussione e di rivendicazioni, spesso nazionalistiche.
Cercare a tutti i costi il ‘vero inventore’ di una tecnologia è, a volte, una sterile impresa.
Cosa intendiamo per inventore? Colui che ha per primo avuto l’idea o chi ha costruito il primo prototipo funzionante o, ancora, colui che lo ha brevettato o chi ne ha fatto un successo commerciale? Ci sono momenti storici in cui certe idee sono, per così dire, ‘nell’aria’ e molti, in molte località diverse, ci stanno pensando, contemporaneamente ed indipendentemente.

Solo quando la tecnologia è matura e la società dell’epoca è pronta a recepirla, un’invenzione potrà imporsi e allora spesso un solo nome di ‘inventore’ passerà alla storia.
Nel caso della stampa, oltre a Gutenberg, troveremo qua e là menzionati l’olandese Laurent Janszoon (Coster) di Haarlem, il francese Jean Mentelin di Strasburgo, l’italiano Panfilo Castaldi di Feltre, Jean Brito di Bruges o Procope Waldfoghel ad Avignone. Chiunque sia stato il ‘primo’ in Europa ad usare i caratteri mobili, non fu certo il primo nel mondo.
Già nel 1041 d.C. , il cinese Pi Sheng aveva stampato pagine con caratteri mobili di terracotta. Considerando il grande numero di logogrammi diversi necessari alla scrittura cinese, il miglioramento di efficienza rispetto al manoscritto non era certo rilevante, ma la finalità dell’Impero del Sol Levante non era quella di promuovere la diffusione della conoscenza, quanto quella di garantire la correttezza e lo stile. (20)
In un altro paese asiatico, la Corea, la stampa a caratteri mobili di rame comparve nel 1403.
La scrittura coreana, a differenza dal cinese, è un alfabeto che comprende solo 40 segni e la stampa a caratteri mobili poteva finalmente dimostrare la sua utilità. (21) Stando alla interpretazione più diffusa, (22) Gutenberg - il cui nome completo era Henne (Johann) Gänsfleisch zu Gutenberg (23) – nacque a Magonza nel 1400 e si trasferì a Strasburgo nel 1434, dove svolse l’attività di orafo e, forse, iniziò i primi esperimenti di stampa.
Successivamente, per problemi legali ed economici, tornò a Magonza, città in cui intraprese i suoi esperimenti con i caratteri mobili di piombo e stagno.
Nella città natale stampò probabilmente i suoi primi prodotti editoriali, un “Calendario del 1448” e un breve “Poema sul Giudizio Universale”. Si mise poi in società con il concittadino Johann Fust per stampare la famosa Bibbia, ma finì ancora in guai finanziari e si vide sequestrare tutte le sue attrezzature, torchio e caratteri compresi, a favore del socio.
Nel 1457 Gutenberg riuscì a rimettersi in affari e, con i vecchi tipi del Calendario, produsse una nuova e più piccola “Bibbia delle 36 linee”. Poco si sa del resto della sua vita, se non che morì a Magonza nel 1467 o 1468. (24)

Non sapremo mai se Gutenberg sviluppò la sua idea attingendo da altre fonti, se Fust gliela trasmise - rubandola a Janszoon, di cui era un aiutante (25) – o se altri stavano mettendo a punto lo stesso procedimento, più o meno indipendentemente.
Per certo la stampa con matrici di legno (xilografia) era nota in Europa e i tipi mobili erano già conosciuti, anche se utilizzati per altre funzioni, come i punzoni metallici usati dagli orafi e dai rilegatori di codici. (26) Probabilmente, Gutenberg riunì diverse tecniche, trovò la giusta lega metallica per i caratteri ed il metodo migliore per produrli, inventò un inchiostro più adatto e convogliò il tutto in un’attività economica per produrre opere editoriali.
Della Bibbia delle 42 linee furono stampate 180 copie, 145 su carta e le rimanenti su pergamena, di cui sopravvivono 48 esemplari.
L’opera è ancora oggi considerata di ottima fattura, sia per la qualità della stampa, sia per l’aspetto estetico della composizione che simulava i migliori prodotti degli amanuensi. (27) Anche se per Gutenberg non fu proprio un successo economico, l’invenzione ebbe un impatto senza precedenti. Prima del suo tempo esistevano non più di 30.000 libri in tutta Europa, ma già nel 1500 si contavano 60 stampatori nelle città tedesche ed entro cinquant’anni erano disponibili più di nove milioni di volumi, prodotti da più di 1.700 tipografie sparse in ogni paese europeo. (28)

Una così rapida e vasta diffusione di una nuova tecnologia non era mai avvenuta e si ripeterà solo con la Rivoluzione Industriale.
Il 31 ottobre 1517, poco più di sessant’anni dopo la pubblicazione della Bibbia, il monaco Martin Lutero affisse, sul portale della chiesa di Wittenberg, le sue “Novantacinque tesi”, dando avvio alla Riforma Protestante.
Uno dei cardini del protestantesimo fu il rilievo dato ai Testi Sacri nello stabilire le regole della fede. Diventava quindi essenziale la lettura diretta del Libro da parte dei credenti, non più mediata dalle gerarchie ecclesiastiche, e ciò comportava che i libri avrebbero dovuto essere prodotti in grande quantità e a costi contenuti: la stampa era arrivata al momento giusto per garantirsi un vasto ‘mercato’! Lutero chiamò il torchio da stampa “l’ultima e la più grande benedizione di Dio” e Francesco Bacone, di cui parleremo più avanti, sostenne che la stampa “aveva cambiato l’immagine e lo stato del mondo intero”.
Non tutti però accolsero positivamente questa invenzione.
Erasmo, (29) uomo colto e illuminato, mostrava riguardo un certo nervosismo, che manifestava così : “In quale angolo del mondo ancora non vola questo sciame di nuovi libri? Può anche essere che uno qua e uno là contribuisca a qualcosa che sia degno di essere conosciuto, ma un eccessivo numero di essi è pericoloso per gli studiosi, perché produce sazietà, e anche delle cose buone la sazietà è dannosa ... Gli stampatori stanno riempiendo il mondo di libri, non solo di opere insignificanti (come, forse, quelle che io scrivo) ma anche di libri stupidi, ignoranti, diffamatori, deliranti, irreligiosi e sediziosi ...”. (30)

Particolarmente sensibili al successo della stampa furono le istituzioni politiche e religiose che vedevano nella diffusione dei libri un pericolo per la loro autorità.
La preoccupazione nasceva dalla constatazione che un semplice artigiano poteva ormai produrre e vendere liberamente opere letterarie.
In quasi tutte le nazioni europee furono varate leggi che garantivano uno stretto controllo sull’attività dei tipografi.
Già a Milano nel 1483 e nella Repubblica di Venezia nel 1545 erano necessari privilegi concessi dalle autorità per poter produrre un libro a stampa.
In Inghilterra, un editto del 1662 concedeva solo al Re la prerogativa di regolare la produzione e la vendita di libri. (31)
Se, nella lettera, queste leggi furono animate dalla volontà di proteggere autori ed editori da illecite copie, nella prassi permisero anche di controllare la produzione di testi considerati, al tempo, blasfemi o sediziosi. (32)
Il freno più forte alla diffusione della stampa, comunque, veniva dall’ancor elevato livello di analfabetismo; occorreranno altri quattrocento anni prima di poter affermare che ‘tutti’ erano in grado di leggere.

La carta L’invenzione della stampa a caratteri mobili non avrebbe potuto garantire la diffusione dell’attività editoriale se non ci fosse stata una contemporanea evoluzione del supporto fisico dello scritto.
I codici medievali, è noto, erano scritti generalmente su pergamena, (33) un materiale ricavato dalla pelle di pecora, capra o vitello e di costo elevato, se si pensa che per un piccolo codice occorrevano le pelli di qualche decina di animali. (34)

All’epoca questo prezzo era ancora trascurabile in confronto al costo del lavoro dell’amanuense, che poteva impiegare anche alcuni anni per copiare un testo, ma con l’avvento della stampa il supporto diventava il fattore economico più rilevante. Nel 114 d.C. in Cina, dove i documenti erano precedentemente scritti su strisce di bambù, un ufficiale di corte di nome T’sai Lun descrisse il metodo per la produzione della carta a partire da stracci di cotone. (35)
La tecnologia passò prima in Corea e quindi fu esportata in Giappone.
L’invenzione raggiunse l’India e il Medioriente per approdare finalmente in Spagna (ca. nel 1050 d.C.) (36) e poi in Italia nel XIII secolo. (37)
La carta di stracci rimase comunque a lungo un bene di lusso, che contribuiva per più di un terzo al costo dei libri, fino al XIX secolo, quando si imposero metodi industriali per produrre carta a partire dalla polpa di legno, (38) soprattutto per produrla in rotolo continuo e non più in fogli singoli.
L’uso della polpa di legno in sostituzione degli stracci, anche se abbassò i costi e contribuì a facilitare la diffusione dei prodotti editoriali, provocò un grave problema di conservazione: la lignina presente nella polpa tendeva a far ingiallire prematuramente le pagine e a renderle più fragili (la cosiddetta carta acida).

Le riviste scientifiche.
Il diciassettesimo secolo vede la nascita della ‘scienza’ nella moderna accezione del termine.
E’ il secolo di Galileo, di Newton, di Leibniz, di Cartesio e di molti altri ‘filosofi della natura’ (39) che gettarono i fondamenti di quell’approccio empirico ed induttivo alla comprensione dei fenomeni naturali che permetterà di liberarsi dal pensiero filosofico greco e scolastico.
Non si deve certo credere che ‘da un giorno all’altro’ i filosofi avessero abbandonato lo spirito medievale: Galileo e Keplero compilavano oroscopi (40) e Newton si dedicava ad esperimenti di alchimia. (41)
D’altra parte, l’amore per la conoscenza e per la libera discussione delle idee può essere pre-datato al cosiddetto ‘Piccolo Rinascimento’ del XIII secolo, che vide la fondazione delle Università e la riforma dell’istruzione.

Non dimentichiamo infine che Leonardo (1452-1519) e Copernico (1473-1543) erano vissuti nei due secoli precedenti.
Ma è nel Seicento che si fa strada un nuovo modo di considerare la conoscenza della natura ed uno dei paradigmi di questo è proprio la necessità di comunicare le proprie scoperte, di pubblicarle e distribuirle senza limiti geografici o politici, in modo che vengano condivise, discusse e criticate da altri studiosi.

Tra i più energici fautori di questa rivoluzione, anche se lui stesso non produsse scienza, fu Francesco Bacone. (42)
Nei suoi scritti Bacone raccomandava ai filosofi di affrancarsi definitivamente dall’autorità degli antichi e di finalizzare i propri studi alla produzione di risultati utili alla società, sostenendo che “il fine della nostra scienza non è di scoprire argomenti, ma arti; non le conseguenze che derivano dai principi, ma i principi stessi; non ragioni di probabilità, ma designazione ed indicazioni di opere”.
Bacone invitava a superare la auctoritas dei classici, e a ricucire lo strappo millenario che i Greci avevano prodotto tra l’epistéme e la téchne. Come già i dotti Vives, (43) Leonardo e Galileo prima di lui, Bacone incitava a ‘sporcarsi le mani’ e frequentare i ‘vil meccanici’ le cui ‘arti’ possedevano già da tempo quelle caratteristiche di progressività, accumulo del sapere e collaborazione che avrebbero dovuto essere proprie anche della filosofia naturale.

Proprio alla collaborazione tra i ricercatori e al bisogno di continua discussione e critica si deve la nascita delle riviste scientifiche.
Prima della loro comparsa, la validazione dell’esperimento e dell’osservazione era affidata dalla testimonianza di un numero limitato di notabili invitati ad assistervi.
Fu un altro filosofo naturale dell’epoca, l’inglese Robert Boyle, (44) che incitò a scrivere ‘resoconti’ delle esperienze effettuate in modo da permettere a lettori distanti di ripetere gli esperimenti in questione. L’esperienza del singolo poteva così essere diffusa e resa pubblica trasformando i lettori in testimoni ‘virtuali’. (45)
I dotti dell’epoca rinascimentale comunicavano tra loro prevalentemente per via epistolare. La rete di comunicazione tra i filosofi era molto più vasta di quanto ci possiamo immaginare, non ostante le difficoltà logistiche di un’epoca che non conosceva regolari servizi postali pubblici. (46)
Il sistema della corrispondenza non può però essere paragonato alla pubblicazione, si trattava semplicemente di un privato scambio di idee tra due studiosi. (47)

Nascita delle riviste scientifiche e loro proliferazione.
Le riviste scientifiche nacquero in parallelo alla fondazione delle Società Scientifiche, anche se non sempre il legame tra le due istituzioni era formale. (48)
I primi due periodici scientifici furono il francese Journal des Sçavans ed il britannico Philosophical Transactions.
In Francia, il parlamentare Denis de Sallo (49) diede alle stampe il primo numero del Journal des Sçavans il 15 gennaio del 1665. Sallo era un rappresentante del gruppo di intellettuali che contribuì poi a fondare la Académie des Sciences. (50)
Il Journal fu il modello dei periodici che si rivolgevano ad un largo pubblico, non solo agli studiosi; il suo contenuto si fondava su resoconti di libri, conditi con commenti e divagazioni dei redattori, pochi contributi originali sotto forma di lettera (51) e altre novità varie della vita culturale francese ed estera.
Meno di due mesi dopo, il 6 marzo del 1665, apparve a Londra il mensile Philosophical Transactions, fondato da Henry Oldenburg, (52) che un secolo più tardi diventerà l’organo ufficiale della Royal Society. (53)
Diversamente dal predecessore francese, le Transactions erano prevalentemente dedicate alla ricerca scientifica e destinate agli studiosi.
L’idea di Oldenburg era quella di creare una sorta di ‘registro’ della scienza, un documento che, essendo pubblico, stabiliva in modo inequivocabile la paternità e la priorità di una scoperta o di un’invenzione.
Alla diffusione ed alla discussione delle ipotesi scientifiche si affiancava quindi il riconoscimento del valore del ricercatore e delle sue creazioni; funzione che prevarrà sempre più, fino a diventare l’elemento più rilevante della letteratura scientifica moderna.
Negli anni successivi apparvero in Europa altre pubblicazioni di questo tipo, come il Giornale dei litterati di Roma (1668), la Miscellanea curiosa medico-physica, della Academia Naturae Curiosorum di Halle (1670), gli Acta medica et philosophica hafniensia di Copenhagen (1673) e gli Acta Eruditorum di Lipsia (1682).
Seguì presto una vera e propria esplosione di periodici scientifici che diventarono sempre più specializzati, focalizzandosi su specifiche discipline.
Nell’Ottocento le pubblicazioni si divisero in due gruppi: quelle dedicate al grosso pubblico, che proliferarono nell’epoca vittoriana diventando un lucrativo business, e quelle destinate ai ricercatori, a tiratura più limitata.
Queste ultime raggiunsero il centinaio di titoli prima del 1800, crebbero fino al migliaio nel 1850, per sfiorare il numero di ottantamila nel 1970. (54)
Una crescita esponenziale che, come vedremo, contribuirà a provocare una vera a propria crisi dell’editoria scientifica.

L’evoluzione del linguaggio scientifico.
Le basi stesse del progresso scientifico, cioè la condivisione, la riproducibilità e la critica delle scoperte degli studiosi, non avrebbero potuto consolidarsi senza il supporto delle pubblicazioni a stampa che divennero presto un fattore necessario, ma ancora non sufficiente.
Se torniamo all’inizio di questo breve viaggio nel tempo, il paragone tra il Papiro di Ebers e l’articolo di Environmental Health Perspectives, vediamo che una sostanziale differenza si trova nel lessico utilizzato dagli scienziati.
Già nel ‘400, Leonardo (55) era conscio della necessità di una terminologia più ricca e precisa per descrivere fenomeni naturali e macchinari complessi e cercò lui stesso di affinare il proprio linguaggio.
Ricordiamo che Bacone non era ancora apparso sulla scena e che il da Vinci scriveva forse solo per se stesso, come dimostrerebbe il suo sforzo per rendere illeggibili i suoi ‘appunti’.
Anche Agricola, (56) nel XVI secolo, lamentava l’inadeguatezza del linguaggio in uso ai suoi tempi.
La baconiana ‘utilità sociale’ del sapere non poteva certo essere messa in pratica senza uno stile adeguato di scrittura.
Ancora nei secoli XVI e XVII molti filosofi usavano un linguaggio ermetico che, nelle loro intenzioni, doveva servire a nascondere ai non-iniziati profonde verità esoteriche destinate esclusivamente a pochi eletti.
In realtà, ciò serviva anche a celare idee confuse, conoscenze approssimative, se non vere e proprie truffe, quelle che oggi chiameremmo ‘frodi scientifiche’.
La forma ermetica era infatti paradigmatica dell’alchimia, arte in cui la chiara descrizione delle procedure e la riproducibilità degli esperimenti non era certo un fine da perseguire.
Per fare un esempio di come lo stile si sia evoluto, consideriamo la seguente descrizione di Aristotele (IV secolo a.C.) (57) : “Sia A il motore, B il mosso, C la lunghezza percorsa, D il tempo in cui si attua il movimento. In un tempo uguale la forza uguale A muoverà la metà di B per il doppio di C, e muoverà C nella metà di D: tale, infatti sarà la proporzione. E, inoltre, se la stessa forza muoverà lo stesso oggetto in questo tempo qui secondo tanta lunghezza, e lo muoverà secondo la metà della lunghezza nella metà del tempo, anche la metà della forza muoverà parimenti la metà dell’oggetto in uguale tempo secondo una lunghezza uguale. Se però E muove F per uno spazio C in un tempo D, non segue necessariamente che E possa in un tempo eguale muovere una massa doppia di F per metà dello spazio C; potrebbe darsi invero che non provocasse alcun movimento”.

Confrontiamolo con Newton (1687), (58)Ciascun corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, salvo che sia costretto a mutare quello stato da forze impresse. ... I proiettili perseverano nei propri moti salvo che siano rallentati dalla resistenza dell’aria e sono spinti verso il basso dalla forza di gravità. Un cerchio non cessa di ruotare, salvo che venga rallentato dalla resistenza dell’aria ...”.

Anche se non stanno trattando esattamente del medesimo argomento, è indubitabile la maggior chiarezza e la precisione di Newton.
Forse, il grande ‘peccato’ di Galileo non fu soltanto quello di aver condiviso l’eretica teoria eliocentrica di Copernico, ma anche di aver scritto il Dialogo in lingua volgare ed in una forma particolarmente facile da leggere e da comprendere anche da parte dei meno colti; si potrebbe dire che Galileo fu il primo dei divulgatori scientifici.
Il già nominato Boyle descriveva i suoi esperimenti in modo così dettagliato e circostanziato da rendere i suoi scritti molto simili agli articoli tecnici dei giorni nostri.
A conferma dell’attenzione che i primi movimenti scientifici ponevano al lessico, si può citare Paolo Rossi che così racconta: “A tutti i membri della Società [la Royal Society] si richiedeva ‘un modo di parlare discreto, nudo, naturale: sensi chiari; la capacità di portare tutte le cose il più vicino possibile alla chiarezza della matematica; una preferenza per il linguaggio degli artigiani, dei contadini, dei mercanti piuttosto che per quello dei filosofi”. (59)
Nei secoli successivi, ad estromettere disordine ed imprecisione dagli scritti scientifici intervennero, fra gli altri, Linneo (60) e Lavoisier (61).

Il primo riordinò la nomenclatura dei viventi, introducendo la denominazione binomia delle specie vegetali; il secondo mise ordine nella terminologia chimica che fino ad allora era, a dir poco, fantasiosa.

Grafici e Tabelle.
Una delle caratteristiche che più differenzia i testi scientifici moderni da quelli antichi è certamente la presenza di tabelle, grafici e disegni.
Se è pur vero che i codici medievali erano ricchi di splendide illustrazioni, queste erano pensate più per impreziosire l’opera e suscitare meraviglia nel lettore che non per aggiungere significato o per migliorare la comprensibilità.
Generalmente si trattava di allegorie e non di rappresentazioni della realtà fisica. (62)
Illustrazioni utili come strumenti per la comprensione del testo le troviamo solo a partire da Leonardo, certamente per effetto della sua formazione come pittore, ma i suoi appunti non erano scritti per essere compresi da altri.
Le illustrazioni naturalistiche, anatomiche e meccaniche, come parte integrante dei trattati tecnico-scientifici, precorrono in verità di quasi un secolo la rivoluzione scientifica e sono contemporanee all’invenzione della stampa. Particolarmente fiorente fu l’iconografia delle opere che riguardavano le arti meccaniche come, ad esempio, il ‘De re metallica, libri xii’ (1556) di Giorgio Bauer, o ‘Le diverse ed artificiose macchine del capitano Agostino Ramelli’ (1588) dello stesso Ramelli. (63)
Le illustrazioni fioriranno dal XVI secolo in poi, sulla spinta delle scoperte naturalistiche dei nuovi mondi, dell’approfondimento dell’anatomia umana e animale e della progettazione di nuovi macchinari, diventando un complemento irrinunciabile per ogni prodotto editoriale di una certa rilevanza. (64)

Nel Settecento apparirà poi una nuova forma di illustrazione a forte contenuto informativo: il grafico.
L’idea di Cartesio di poter rappresentare qualunque quantità con punti disposti su un piano diviso da assi ortogonali era ormai entrata nella analisi matematica, ma i primi grafici videro la luce nei trattati di economia, quali l’”Atlante commerciale e politico” di William Playfair, (65) pubblicato nel 1786.
In quest’opera comparve, per la prima volta, la rappresentazione grafica dei dati, sotto forma di ‘barre’ e ‘torte’. (66)
Quello che a noi sembra una saggia innovazione, fu invece osteggiata ai tempi di Playfair, che così nota: “Questo metodo è considerato erroneo da molte persone, poiché [secondo loro] le misure geometriche non hanno alcuna relazione con il denaro o con il tempo, eppure qui si vorrebbe rappresentarli entrambi”.

Il sistema della “peer-review”.
Nel primo secolo dopo la loro nascita, le riviste scientifiche erano solite pubblicare indiscriminatamente tutto quello che veniva loro sottoposto.
Molto spesso il redattore contribuiva alla maggior parte del contenuto e si limitava ad una grossolana cernita di quanto proveniva da fonti esterne.
Di fatto, c’era generalmente più richiesta di materiale da pubblicare, che offerta.
La necessità di garantire la qualità scientifica dei contributi nacque non tanto dai redattori o dagli editori dei periodici, quanto dalle Società Scientifiche.
Queste vedevano con preoccupazione l’uso della loro egida per la pubblicazione di argomenti o teorie di discutibile valore.
In quest’ottica, nel 1775 la Académie Royale des Sciences, votò la seguente risoluzione: “ ... di non esaminare alcuna soluzione di problemi sui seguenti argomenti: la duplicazione del cubo, la trisezione dell'angolo, la quadratura del cerchio o alcuna macchina per dimostrare il moto perpetuo”, stabilendo così una specie di censura preventiva su quanto poteva essere pubblicato.
Già quarant’anni prima, le Philosphical Transactions, divenute organo della Royal Society, si erano dotate di un “Committee on Papers” composto da illustri membri della società, che aveva il compito di valutare i manoscritti ed eventualmente rifiutarli o proporre all’autore miglioramenti.

Nel secolo successivo e soprattutto nel Novecento, la peer-review divenne prassi comune nell’editoria scientifica, prima affidato al redattore, poi a ‘comitati editoriali interni, infine ad una selezione di esperti riconosciuti del settore scelti senza limiti geografici. Determinante a questo fine fu la sempre più spinta specializzazione della ricerca.
Le riviste del settore medico furono tra le ultime ad adottare la peer-review: nel 1893 il British Medical Journal per primo sottoponeva regolarmente gli articoli ricevuti alla valutazione di esperti.
Come afferma Kronick (67), la peer-review è divenuta “parte integrale del processo di costruzione del consenso che è inerente e necessario alla crescita della conoscenza scientifica”, in una parola è divenuto il ‘marchio di qualità’ degli articoli pubblicati.
La peer-review non impedisce certo abusi, pregiudizi ed errori, ma, come diceva Ch urchill riferendosi alla democrazia, “è il peggior sistema possibile, ... salvo tutti gli altri”.

L’avvento del computer: La crisi dell’editoria scientifica.
Tra il Seicento ed il Novecento la pubblicistica tecnico-scientifica, particolarmente quella periodica, si era evoluta fino a raggiungere lo standard a cui noi siamo abituati. (68)
L’evoluzione fu parallela all’esplosione della ricerca e delle scoperte scientifiche e coerente con essa, e così fu anche quella del ‘sistema editoriale’, che vi si accompagnava, cioè l’insieme degli autori, degli editori (privati o istituzionali), dei revisori, dei curatori, dei tipografi, e delle biblioteche.
Non solo la pubblicazione scientifica rispondeva alla necessità di far circolare le idee e garantiva ormai il riconoscimento della priorità e della qualità del lavoro di ricerca, come Oldenburg aveva preconizzato, ma permetteva la valutazione del valore di un ricercatore.
Quest’ultimo aspetto diverrà determinante negli anni ’60 quando si introdusse il concetto dell’ impact factor, (69) come strumento quantitativo di valutazione, fondamentale per la carriera dello scienziato ed il finanziamento del suo lavoro.
Il sistema iniziò ad andare in crisi al termine della II Guerra Mondiale, quando ci si rese conto che la quantità di pubblicazioni scientifiche era tale che stava diventando difficile per il ricercatore mantenersi informato su ciò che facevano i suoi colleghi in altre parti del mondo e praticamente impossibile sapere cosa si scopriva in settori diversi dal proprio ristretto ambito di specializzazione. (70)

Già da tempo erano comparsi vari ausili, quali i repertori bibliografici e i sistemi di alerting, e stavano nascendo le prime ‘banche dati bibliografiche accessibili per via telematica. (71)
Ma tutto ciò risolveva solo parzialmente le criticità.
Altri fenomeni concomitanti produssero conseguenze altrettanto serie.
Negli anni ’50 e ’60 si assistette ad una concentrazione delle testate nelle mani di un gruppo di editori commerciali, causata dall’aumento di costi di produzione e distribuzione e dalla conseguente difficoltà delle associazioni scientifiche e delle istituzioni accademiche a continuare la loro attività editoriale.
Contemporaneamente, come già detto, era diventato irrinunciabile per un ricercatore la pubblicazione dei suoi risultati: si era originato il fenomeno cosiddetto del publish-or-perish, per effetto del quale la sopravvivenza professionale degli scienziati dipende dal numero di articoli pubblicati e dalla rinomanza delle testate sui cui vengono pubblicati.
Ciò a sua volta aumentava la richiesta di spazio editoriale, dilatava a dismisura i tempi di pubblicazione ed incrementava i costi.
Nasceva così un mercato editoriale in cui la relazione tra domanda, offerta e costi non era più determinata da un legame ‘fisiologico’. (72)
Come afferma Michele Santoro: (73) “Si tratta di una situazione che trova la sua genesi nel meccanismo stesso della comunicazione scientifica: difatti gli studiosi pubblicano i loro lavori su riviste che sono di proprietà degli editori commerciali, ai quali generalmente cedono tutti i diritti, non solo non ricevendo alcuna retribuzione, ma essendo a volte costretti a versare un contributo per la pubblicazione. Così gli editori …... possono "rivendere" questi lavori alle biblioteche delle stesse università di cui fanno parte gli studiosi che li hanno prodotti, innescando quella spirale che costringe le biblioteche a tagliare gli abbonamenti per far fronte agli aumenti dei costi, e che vede gli studiosi espropriati dei vantaggi - economici oltre che informativi - di un sistema di cui sono parte determinante”.

Non solo era difficile poter leggere tutto ciò che interessava, ma i budget delle biblioteche accademiche non riuscivano più a reggere l’incremento dei costi di acquisizione di tutti i periodici necessari, ed i ricercatori non accettavano più i lunghi tempi necessari alla pubblicazione dei loro risultati.
La corsa alla pubblicazione era diventata irrinunciabile e con scadenze sempre più pressanti: occorrevano nuovi strumenti.

Prima del computer.
Per capire cosa stava succedendo e quali erano le possibili vie d’uscita bisogna rifarsi a due illuminati ‘visionari’: Paul Otlet e Vannevar Bush. Paul Otlet 74 è oggi considerato il fondatore della scienza della documentazione, quella disciplina che elabora metodi e tecnologie per classificare, archiviare, indicizzare e recuperare selettivamente i documenti.
Mi permetto di chiamarlo ‘visionario’ perché questo personaggio aveva una visione utopistica su come affrontare il problema della proliferazione dei documenti e della loro reperibilità.

Già all’inizio del XX secolo Otlet prefigurava la creazione di un centro mondiale della documentazione, poi battezzato Mundaneum, che raccogliesse tutto il sapere accumulato sotto forma di testi scritti e lo classificasse secondo un metodo razionale per renderlo disponibile a tutti gli studiosi.
Il suo sogno andava al di là della semplice biblioteca universale, arrivando a immaginare che : “Si creerà una tecnologia fruibile a distanza che combina radio, raggi X, [sic.] cinema e microfotografia. Ogni cosa dell’universo e ogni cosa dell’uomo saranno registrati a distanza nel momento in cui saranno prodotti. In questo modo si produrrà un’immagine dinamica del mondo, vero specchio della memoria. Da un punto distante, ognuno potrà leggere i testi, generali o limitati al soggetto desiderato, proiettati su uno schermo individuale”.
Otlet aggiunse poi che “Questo sviluppo consiste nello stabilire connessioni tra ciascun documento e tutti gli altri e formare con essi quello che può essere chiamato - libro universale”. (75)
Sembra una descrizione ante-litteram dello Wold Wide Web dei giorni nostri.
L’invasione e l’occupazione del Belgio nel 1940 ed i problemi della ricostruzione post-bellica distrussero quanto Otlet aveva creato e di lui si perse quasi memoria.
Pochi anni dopo, negli Stati Uniti, un certo Vannevar Bush si troverà ad affrontare lo stesso problema, ma in un’ottica più pragmatica.
Bush (1890-1974) era consigliere scientifico del presidente F. D. Roosevelt e direttore dello ‘Office of Scientific Research and Development’, incarico che lo rese responsabile del coordinamento di più di 6.000 scienziati coinvolti nelle ricerche militari durante la II Guerra Mondiale. Nel 1939 Bush descrisse, per la rivista Fortune, una ‘macchina’ che avrebbe combinato le tecnologie esistenti (elettromeccanica, microfoto, scansione ottica) per accedere ai documenti secondo un approccio simile ai processi associativi del cervello umano.(76)

Bush battezzò lo strumento MEMEX (MEmory EXpander).
Nel MEMEX si prefiguravano già l’ipertesto e della multimedialità.(77)
A Otlet e a Bush mancava la giusta tecnologia, ma questa era ormai a portata di mano: stava arrivando sulla scena il ‘computer’. (78)
Computer e Testi Tra le invenzioni moderne, il computer è quella che meglio conferma il celebre aforisma di Arthur C. Clarke, (79) secondo cui “ogni tecnologia sufficientemente avanzata non è distinguibile dalla magia”.
Anche nel caso del computer - invenzione vecchia di soli sessant’anni - sono tutt’ora in corso accese diatribe su chi ne fu il vero inventore. Rimandando l’approfondimento alle opere citate in bibliografia, mi limito a ribadire che, come per la stampa, l’idea era ‘nell’aria’ e che molti, da Charles Babbage (80) in poi, si cimentarono con la progettazione di questa macchina, ciascuno contribuendo con idee e soluzioni tecniche.

I primi calcolatori automatici programmabili comparvero negli anni ’40 dello scorso secolo in Germania, negli Stati Uniti ed in Inghilterra. (81)
I computer di quel primo periodo erano macchinari costosissimi, enormi, delicati, poco affidabili e difficili da usare.
La loro funzione - ed il motivo per cui furono progettati - era il puro e semplice calcolo numerico, necessario alla ricerca dell’industria bellica, aerospaziale e nucleare o alla contabilità delle grandi corporations.
Queste macchine erano affidate alle cure di una gelosa confraternita di adepti che agivano da invalicabili intermediari tra l’utente e il cervello elettronico.
Questo stato di cose iniziò a cambiare negli anni ’60 con la comparsa dei ‘minicomputer’, molto meno costosi, più affidabili e più facili da usare, accessibili direttamente al singolo utilizzatore.
Ma la vera rivoluzione informatica avvenne dopo il 1975 con la costruzione dei microcomputer, battezzati poi ‘personal computer’, e soprattutto con l’avvento delle interfacce grafiche, del mouse, del software e delle connessioni in rete. Ora veramente chiunque poteva sfruttare le opportunità offerte dall’informatica. (82)
Ci si rese presto conto che, anche se nato per il calcolo matematico, il computer può svolgere qualunque operazione logica su qualunque insieme di simboli, quindi anche sui testi scritti, materializzando così la macchina universale di Turing.
La macchina da calcolo fu presto impiegata per la produzione di indici, per la creazione di testi, per la gestione di database della letteratura scientifica, cominciando a soddisfare alcuni dei desideri di Otlet e Bush.
Uno degli antesignani dell’uso dei calcolatori per la trattazione dei testi fu il gesuita Padre Roberto Busa che, già nel 1949, usava le macchine IBM a schede perforate, (83) per l’analisi lessicografica delle opere di Tomaso d’Aquino, realizzando lo Index Thomisticus. Dagli anni ’70 l’applicazione più comune dei personal computer fu proprio la gestione dei testi: lo word processing. (84)

La rete, i bollettini, la posta elettronica.
Nel 1969, anno dell’indimenticabile missione lunare Apollo XI, esattamente il 29 ottobre, alle 14:30 (tempo medio europeo), un giovane laureando, Charles Kline, provò a collegare un computer dell’UCLA (University of California, Los Angeles) con uno dello Stanford Research Institute.
Il primo messaggio trasmesso fu il comando ‘LOGIN’.
Questo timido balbettio digitale fu l’alba di un fenomeno che oggi incide sulla vita economica e sociale molto più dello sbarco sulla Luna: era nato il primo abbozzo di una ‘rete di calcolatori, battezzata ARPAnet. (85)

Il tutto era cominciato con la preoccupazione scatenata negli USA dalla messa in orbita dello Sputnik, nel 1957, che spinse il presidente Eisenhower a fondare la Advanced Research Projects Agency (ARPA) il cui mandato era il recupero e il mantenimento della superiorità tecnologica statunitense nei confronti del blocco sovietico.
Nel 1964 un ricercatore della RAND (86), Paul Baran, pubblicò un rapporto intitolato On Distributed Communications Networks in cui prefigurava “...un sistema di comunicazione, senza un evidente comando centrale, in cui tutti i punti sopravviventi ad eventuali attacchi possono ristabilire contatti e funzionamento senza perdite di connettività e di informazioni”.
Non si pensi che le motivazioni fossero solo di carattere politico-militare, infatti due anni prima un altro dei padrini di Internet, J.C.R. Licklider (87) immaginava che “...i computer potranno aiutare i ricercatori a comunicare e condividere le informazioni, … un giorno le comunità e le persone con interessi comuni potranno discutere argomenti scientifici on-line”. (88), (89)

Nel 1969 furono collegati i primi quattro nodi di ARPANnet, (90) che crebbe rapidamente e fu presentata per la prima volta al pubblico nel 1972, (91).
Nel 1990 ARPAnet cessò di esistere e il Dipartimento della Difesa (DoD) spostò il traffico su una propria rete: MILnet.
Il rischio di un disastroso black-out delle comunicazioni scientifiche fu evitato dalla lungimiranza della National Science Foundation americana che, dal 1986, era subentrata al DoD nella gestione della rete.
La rete, ribattezzata NSFNet, riunì la maggior parte delle università americane e aprì la connessione anche ai centri di ricerca del vecchio continente.
Negli anni successivi quasi tutti i paesi industrializzati crearono le loro reti scientifiche, commerciali ed industriali.
Altre applicazioni della rete nacquero in sordina e quasi per gioco; un esempio paradigmatico é la posta elettronica.
Nel 1972 Ray Tomlinson inventò il primo programma di e-mail (e il famoso simbolo @). (92)
Già l’anno successivo i messaggi di posta costituivano il 65% di tutto il traffico sulla rete.

La prima mailing-list fu creata nel 1975 da Steve Walker per riunire gli appassionati di fantascienza di tutto il mondo. Dalle mailing-list nacquero i bulletin-boards, sorta di bacheche elettroniche e forma embrionale delle pubblicazioni digitali.
Il computer, nato per eseguire calcoli, e la rete, nata per problemi militari, erano confluiti per trasformarsi in - e continuare ad essere - un ‘mezzo di comunicazione’, dedicato inizialmente alla cerchia di tecnici e scienziati, ma presto esteso a tutti. Il passo successivo sarà l’ingresso delle due tecnologie, riunite sotto il nome di ‘telematica’, (93) nel mondo della editoria scientifica. Licklider aveva visto giusto.

La multimedialità, l’ipertesto e il WWW.
Due erano le tecnologie che ancora mancavano negli anni sessanta dello scorso secolo per ottenere un sistema come quello prefigurato da Otlet e Bush e realizzare una ‘rete della conoscenza’ come oggi la conosciamo: la multimedialità e l’ipertesto.
Tra i tanti finanziamenti che il Governo Americano distribuiva con larghezza, uno in particolare finì allo Stanford Research Institute, nelle mani di Douglas C. Engelbart. (94)
I progetti su cui Engelbart stava lavorando riguardavano l’interfaccia di comunicazione tra uomo e computer, problema da affrontare seriamente per uscire dai vincoli imposti dal sistema dei ‘centri di calcolo’.
Doug era un sognatore che seguiva il miraggio di un computer destinato ad ‘espandere’ le capacità della mente umana (95) e, per raggiungere questo risultato, doveva inventare nuovi strumenti di colloquio tra uomo e macchina, più diretti ed interattivi.
Nel dicembre del 1968 il risultato di Engelbart e del suo gruppo fu oggetto di una pubblica dimostrazione che lasciò i presenti letteralmente ‘a bocca aperta’: su un grande schermo si vedevano scorrere contemporaneamente testi, listati di programmi, disegni e diagrammi, assieme al volto di Engelbart che spiegava la dimostrazione; il tutto gestito da un computer.
Si trattava dello NLS (oNLine System) e la presentazione era comandata da uno strano aggeggio che Doug muoveva con una mano: il mouse.
Le invenzioni di Engelbart (mouse, schermo a finestre, WYSIWYG, etc.) saranno sfruttate dalla Xerox nel suo computer Alto96 del 1972.
Passeranno poi alla Apple che le incorporerà prima nel modello Lisa (1983) e poi nel Macintosh (1984). (97)

Un altro “visionario”, Ted Nelson, (98) nel suo libro Literary Machine immaginava nel 1960 che : “il futuro dell’umanità starà nell’interazione con uno schermo di computer” e che “gli scritti e le immagini saranno interattivi e interconnessi”.
Nel 1968 coniò il termine ‘Ipertesto’ per rappresentare questo insieme di collegamenti virtuali tra diversi documenti.
Bisogna però arrivare al 1989, quando al Centro Europeo per la Ricerca Nucleare di Ginevra, un giovane fisico di nome Tim Berners-Lee affrontò il problema della disponibilità on-line dei documenti e del loro collegamento semantico e referenziale, pubblicando il rapporto “Information management: a proposal”.

Berners-Lee sfruttò le potenzialità della rete, dove ormai i diversi frammenti di conoscenza possono trovarsi disseminati su computer sparsi in tutto il mondo e sarà il lettore/navigatore, grazie ai collegamenti ipertestuali, a scegliere i percorsi da seguire.
Nel 1993 fu pronto il primo software per la navigazione ipertestuale in rete, chiamato MOSAIC: lo World Wide Web era ormai una realtà.
La rete mondiale di computer era ormai pronta per sostituirsi non solo alla stampa, ma anche alla radio, alla televisione, al cinema ed alle conferenze. Il Mundaneum di Otlet era diventato realtà, ma con una sostanziale differenza: non un sistema gerarchico soggetto ad un controllo centralizzato, ma una democratica, anzi anarchica, devoluzione.

L’e-journal.
Già alla fine degli anni ’70, le reti (Internet, BITnet, Usenet e altre) erano diventate il più rapido mezzo di comunicazione e pubblicazione dei risultati scientifici, (99) particolarmente nei settori dell’informatica, della fisica e della matematica. Da principio, i maggiori editori scientifici accolsero la novità con forte scetticismo: vedevano messa a rischio la vendita delle versioni a stampa e non sapevano come gestire una tecnologia così innovativa.
Anche molti tra gli studiosi erano preoccupati della nuova tendenza, paventando una perdita di rigorosità a seguito del mancato controllo della qualità scientifica, stabilito dal sistema della peer-review.
Nonostante ciò, nel 1987 apparve in rete il primo e-journal, lo “New Horizons in Adult Education”, solo testuale e distribuito gratuitamente.
Cinque anni dopo fu disponibile la prima rivista di medicina esclusivamente elettronica: lo “Online Journal of Current Clinical Trials”, corredata di figure e grafici e la cui sottoscrizione era a pagamento. (100)
Entrambe queste testate digitali garantivano anche la peer-review.
Fu solo nel periodo 1991-1995 che un grande editore scientifico, Elsevier, si lasciò coinvolgere nella distribuzione on-line di riviste elettroniche con il progetto TULIP e nel 1999 era già disponibili in rete circa 2000 e-journal di alcuni tra i maggiori editori internazionali.
Passato il primo periodo di scetticismo, gli editori avevano ormai definitivamente occupato la nicchia dell’e-journal, applicandovi gli stessi criteri di qualità e di sicurezza già definiti per le riviste a stampa.
Purtroppo avevano anche mantenuto la stessa politica commerciale, per cui non di rado l’accesso alla versione on-line delle rivista era preclusa a chi non era abbonato alla versione cartacea, quando non si doveva pagare anche un supplemento.

L’e-journal ha indubbi vantaggi pratici sulla stampa: minore è il tempo di pubblicazione e di distribuzione, i link ipertestuali permettono di ‘saltare’ rapidamente agli articoli citati in bibliografia o alle altre pubblicazione dello stesso autore o della stessa testata, ma tutto ciò ad un costo per il lettore che i sognatori di vent’anni prima non avevano messo in conto.
La tecnologia digitale e il WWW non hanno, in realtà, risolto la crisi dell’editoria scientifica: le biblioteche continuano ad avere problemi di finanziamento e i lettori continuano ad essere travolti, forse ancor più di prima, dalla quantità di informazioni prodotte e pubblicate, afflitti dal cosiddetto information overflow. Anche gli autori, nella stretta del publish-or-perish, non godono ancora di grandi vantaggi in termini di rapidità di pubblicazione.
Per cercare di ‘rompere’ il circolo vizioso, in parallelo alle riviste elettroniche nacquero gli open archive: una sorta di database che rende disponibili in un sito Internet articoli, abstract e rapporti tecnici redatti direttamente dagli autori, sfuggendo quindi alla strettoia del processo di pubblicazione ‘classico’.
I principali vantaggi sono la gratuità della pubblicazione e della lettura, e l’immediatezza della disponibilità.

Il primo degli open-archive è stato fondato nel 1991 da Paul Ginsparg, del Los Alamos National Laboratory, dedicato ad alcuni settori della fisica.
Questa forma di pubblicazione ha avuto un certo successo ed ha permesso di contrastare l’oligopolio degli editori commerciali, ma ha risolto solo parzialmente alcuni aspetti della crisi.
Anche se certamente non comparabili alle pubblicazioni scientifiche, il WWW mette oggi a disposizione altri strumenti innovativi di comunicazione. Cito qui solo brevemente i blog e gli wiki.
I primi sono siti Internet personali, aperti o meno al contributo di altri, oltre a quelli del loro autore. I secondi sono vere e proprie enciclopedie on-line costruite con l’apporto di chiunque voglia prendersi la responsabilità di redigerne, arricchirne o correggerne una qualsiasi voce.
Contrariamente a quanto si può pensare questa forma libera ed anarchica - e gratuita - di pubblicazione non è di qualità significativamente peggiore di un’opera editoriale classica, almeno stando a quanto suggerito da uno studio della rivista Nature, che ha confrontato la più famosa delle wiki (Wikipedia) con la storica Encyclopædia Britannica. (101)

Nuove tecnologie, vecchi e nuovi problemi.
Lasciando agli interventi che seguiranno un’analisi più competente ed approfondita del mondo dell’editoria elettronica nel settore scientifico, del suo impatto e delle più recenti prospettive di soluzione, vorrei terminare con un paio di riflessioni.
La prima riguarda l’annoso problema dell’identificazione delle fonti, cioè la ricerca degli articoli che rispondono alle necessità dello studioso.
Se è vero che, una volta identificata la fonte, non è più necessario trovare la raccolta di quella rivista, ma è possibile ricevere immediatamente l’intero articolo sul proprio computer, è altrettanto vero che il più affidabile sistema di identificazione dell’informazione bibliografica è ancora quello delle banche dati on-line di vent’anni fa.

I tentativi di creare motori di ricerca ‘intelligenti’, basati sui concetti della artificial intelligence e su nuove strutture del WWW (come ontologie, metadati, semantic web e quant’altro) hanno prodotto risultati deludenti, almeno fino ad oggi.
Se non c’è il contributo di un’intelligenza ‘naturale’ a classificare preventivamente il contenuto semantico del documento e a codificarlo con ‘parole chiave’ controllate, nessun motore di ricerca riesce ancora a dare risultati sufficientemente precisi e completi. (102)
La seconda, ancora più preoccupante, riguarda la volatilità delle pubblicazioni digitali, causata dalla cosiddetta digital obsolescence.
Cinquant’anni fa la maggiore preoccupazione di un bibliotecario era la carta acida, che provocava un precoce invecchiamento di libri e riviste.

Oggi si sta riproducendo esattamente lo stesso problema, ma molto più velocemente.
Per rendersene conto basta ricordare cos’è il substrato fisico dell’e-publication: microscopici segni magnetici o ottici registrati sulla superficie di un disco o di un nastro.
I segni sono scritti in codice binario e, per ottenerli, si deve passare attraverso più fasi di codifica,103 che dipendono sia dal software impiegato, sia dall’hardware del computer, sia dal supporto fisico.
Per leggere il documento occorre quindi non solo disporre di un hardware che riconosca il supporto, 104 ma anche del software che esegua le esatte decodifiche.
Il risultato è che, essendo la durata media di una tecnologia digitale di soli pochi anni, non possiamo già più leggere documenti elettronici prodotti negli anni ottanta.
Il papiro di Ebers, per chi conosce lo ieratico egizio, può essere letto ancora oggi col solo aiuto dei propri occhi, dopo trentacinque secoli; per il Dialogo di Galileo, dopo quasi quattro secoli, basta saper leggere in italiano.
Si potrebbe obiettare che, in considerazione del rapido avanzamento delle conoscenze, un articolo scientifico di vent’anni fa è di scarsa utilità, ma se così veramente fosse, cosa ci trattiene dal mandare al macero intere biblioteche? Non poche organizzazioni si stanno occupando seriamente del problema, (105) ma le soluzioni proposte fino ad ora, come quella di continuare a convertire i vecchi documenti alla comparsa di ogni nuova tecnologia o quella di creare di volta in volta software di simulazione dei precedenti strumenti informatici, comporteranno continue ed enormi spese: chi le sosterrà?



Ringraziamenti
Un ringraziamento a Massimo Zaninelli per le costruttive critiche e gli utili suggerimenti e a Silvana Giaretto per l’aiuto bibliografico.


Bibliografia e Webografia

La scrittura:



La stampa:


La Rivoluzione del Linguaggio Scientifico:


Il Computer e la Rete


______________________________________________________________________________-

Note

(1) Presentato a: "La Pubblicazione Scientifica in Medicina", Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell'Umbria e delle Marche, Perugia, 6 luglio 2006.

(2) Il papiro di Ebers è un rotolo lungo 20 m. e largo 30 cm. Il testo vi è distribuito in 108 colonne di 20-22 righe. Il papiro descrive 877 ricette per la cura di una grande varietà di malattie ed è il più vasto documento egizio di medicina. Può essere datato nel IX anno del regno di Amenhotep (ca. 1534 a.C.), ma un suo frammento suggerisce un'origine vicina alla I Dinastia (ca. 3000 a.C.). Le cure proposte per l'asma comprendono: il balsamo di mela, il sesamo ed il franchincenso (una resina aromatica). Il papiro di Ebers è conservato nella biblioteca dell'Università di Lipsia.

(3) I quipu sono mazzetti di cordicelle recanti un certo numero di nodi. Già da tempo è stato riconosciuto il loro ruolo per la rappresentazioni dei numeri. Secondo Gary Urton, professore di antropologia ad Harvard, i quipu conterrebbero 7 codici binari capaci di trasmettere più di 1500 unità di informazione, anche lessicali.

4 Op. cit.

5 In italiano si riconoscono circa 30 fonemi e in inglese circa 45. Due casi estremi sono la lingua Pirahã (parlata da circa 150 persone, in otto villaggi dell'Amazonia), che ne ha solo 10, e lo !Xù (parlata in Namibia ed Angola da circa 15.000 persone della tribù Saan) che ne ha ben 140.

(6) Altre linee di evoluzione parallele produssero diversi alfabeti. Oltre ad arabo, aramaico, ebraico e persiano, discendenti più o meno diretti dal Fenicio, abbiamo il cirillico e il glagolitico nei paesi slavi e il futhark in Scandinavia, entrambi derivati dal greco. L'unico 'alfabeto' non riconducibile al proto-sinaitico è lo hangul della Corea, risalente al XV secolo d.C.

(7) Op. cit.

(8) La datazione esatta dei documenti indiani è molto difficile; la prima testimonianza scritta delle cifre indiane, databile col nostro calendario, è dovuta al vescovo nestorianio Severus Sebokht, nel 662 d.C. Altre notazioni posizionali furono inventate indipendentemente dai Babilonesi (con base 60), dai Cinesi (con base 10) e dai Maya (con base 20). Solo i Maya e gli Indiani utilizzarono lo 'zero'.

(9) All'inizio del nono secolo lo studioso Abu Ja'fr Muhammad Ben Musa al Khuwarizmi (790- 850 d.C.) ne descrisse le proprietà in un trattato dal titolo Kitab al jami' wa'l tafriq bi hisab al hind ("Tecniche indiane di addizione e sottrazione"). Dal nome dello studioso deriva il termine 'algoritmo'. Al Khuwarizmi fu anche l'inventore dell'algebra, disciplina che deve il nome al titolo del suo trattato Al-kitab al-mukhtasar fi hisab al-jabr wa'l-muqabalah, cioè " L'arte di ridurre e di riunire".

(10) I numeri indo-arabici furono per la prima volta importati in Europa da Gerberto di Aurillac (ca. 955-1003) eletto poi Papa Silvestro II; fu solo due secoli più tardi che Leonardo Pisano (1170-1240), detto Fibonacci, grazie ai suoi viaggi in Egitto e in Siria, riscoprì i numeri arabi e li presentò ai matematici europei, nel suo Liber abaci del 1202.

(11) Pierre-Simon de Laplace (1749-1827), fisico e matematico francese che diede fondamentali contributi alla teoria della probabilità e alla meccanica celeste.

(12) Per brevità, non si prenderà qui in considerazione un altro fondamentale aspetto dell'editoria: quello dei caratteri. E' però indubitabile che la forma dei caratteri usati può rendere la lettura particolarmente agevole o disagevole, basta provare a leggere un codice medievale per rendersene conto. Questo era dovuto anche alla produzione manuale dei codici e solo con l'invenzione della stampa fu possibile progettare caratteri uniformi e di facile leggibilità.

(13) Si era nel 387 d.C.

(14) Tratto da: "Regole principali dell'Arte maggiore" di Pompeo Bolognetti, 1554.

(15) Era abbastanza comune chiamare cosa l'incognita (x) e numeri le costanti (p, q). Espressa simbolicamente, la lunga frase si può ridurre a :


dove l'equazione da risolvere è x3 + px = q.

(16) I segni + e - si fanno risalire a Nicola d'Oresme (1323-1382); il segno x di moltiplicazione a William Oughtred (1574-1660); i due punti (:) per la divisione comparvero nel 1633 in un testo intitolato Johnson Arithmetik; Nicolas Chuquet (1445-1500) usò per primo l'apice numerico per indicare le potenze nel suo Le Triparty en la Science des Nombres del 1484.

(17) François Viète (1540-1603), matematico e uomo politico francese.

(18) Ancora oggi non tutti usano gli stessi segni, basti pensare alla moltiplicazione (x o . ) ed alla divisione (: o /) o, più semplicemente, all'uso della virgola e del punto come separatori dei decimali e delle migliaia.

(19) Ai tempi di Roma esistevano già pubblicazioni a basso costo e l'editoria, basata su copie prodotte da schiavi, era un fiorente e redditizio commercio. Il poeta Marziale si lamenta che un suo libro di epigrammi fosse venduto al prezzo di soli sei sesterzi (l'equivalente di 18 centesimi di Euro) e che molte pubblicazioni finissero sui banchi dei macellai per incartare la carne!

(20) Ancor prima dei caratteri mobili, fin dal VI secolo, si usava in Cina la "xilografia a pagina" ottenuta con matrici di legno incise che stampavano l'intero foglio. Non era quindi possibile riutilizzare la stessa incisione per pagine diverse. Il più antico testo a noi pervenuto e stampato con questa tecnica è il 'Sutra del Diamante', testo buddista dell' 868 d.C.

(21) Vedi Nota 6.

(22) Il nome di Gutenberg non è mai apparso sul frontespizio di alcun libro. I documenti coevi che menzionano Gutenberg sono una quarantina, ma nessuno di essi lo definisce inventore della stampa.

(23 ) Potrebbe essere tradotto in: Giovanni Carnedoca da Buonmonte.

(24 )Per una trattazione tecnica dell'invenzione della stampa si veda: Singer, C. (op. cit.). Per le diverse ipotesi sull'invenzione della stampa si vedano anche i siti Internet elencati in bibliografia.

(25) Questa versione sembra poco attendibile, il ricco Fust che fornì il capitale a Gutenberg difficilmente poteva essere il povero lavorante di Coster.

(26) Anche in Europa, prima di Gutenberg, era in uso la "xilografia a pagina" per stampare carte da gioco ed immagini sacre. La presenza di questa tecnologia, che precorre quella a caratteri mobili, può aver generato qualche confusione che spiegherebbe le discordanze sulla priorità dell'invenzione. Stampi di legno erano usati anche nei manoscritti per imprimere sulle pergamene i modelli dei capilettera che il 'rubricatore' rifiniva e colorava a mano.

(27) Per la sua Bibbia, Gutenberg usò 300 diversi caratteri che riproducevano anche le varie 'legature' tra le lettere, imitando i codici medievali.

(28 )Tra quelli che furono allievi di Gutenberg ed ex-lavoranti della ditta Gutenberg-Fust ci furono Schöffer a Magonza (nipote di Fust, 1457), Mentel a Strasburgo (1460), Pfister a Bamberg (1461), Sweynheim a Subiaco (1461) e von Speyer a Venezia (1469). Questa diaspora di tipografi fu dovuta in parte al sacco di Magonza, perpetrato dalle truppe di Adolfo di Nassau nel 1462, ed alla conseguente recessione economica della città. Dal XVI secolo sono giunti fino a noi i nomi di più di mille tipografi tedeschi, almeno un centinaio operanti in Italia.

(29) Desiderius Erasmus da Rotterdam (1469-1536), nome latinizzato di Geert Geertsz, umanista olandese. La sua opera più conosciuta è l'Elogio della follia.

(30) Osservando certi scaffali delle librerie dei nostri giorni si è tentati di condividere le preoccupazioni di Erasmo!

(31) Seguito, nel 1710, dallo 'Statuto di Anna', che gettava le basi dell'odierna legislazione sul copyright.

(32) Secondo M. McLuhan fu invece proprio la stampa a permettere un più efficiente controllo governativo sulle masse (Op. cit.).

(33) Erodoto (484-425 a.C.), nelle sue Storie, afferma che l'uso di pelli di animali era già comune nel suo tempo, mentre secondo Plinio il vecchio (23-79 d.C.), nella Historia naturalis, la pergamena fu inventata sotto il regno di Eumene di Pergamo nel III secolo a.C.

(34) Per un testo come la Bibbia di Gutenberg sono necessarie 300 pecore.

35 Qualche autore anticipa l'invenzione della carta in Cina al I secolo a.C. Durante la sua permanenza nel Catai (1271- 1288), Marco Polo (1254-1324) doveva aver appreso che le 'banconote' là in uso erano stampate su carta con la tecnica xilografica.

(36) Il 'Messale Mozarabico' del Monastero di San Domenico di Silos (Andalusia) è il più antico codice europeo su carta, a noi pervenuto. Le sue caratteristiche paleografiche e il fatto che la liturgia mozarabica fosse stata abolita in Spagna dal 1080 da papa Gregorio VII, mostra che il Messale doveva essere precedente a tale data. Il termine 'mozarabico' si riferisce al rito cristiano in uso in Spagna durante la dominazione musulmana.

(37 )Sembra, per la prima volta, a Genova nel 1250.

(38) Proprio dall'uso della 'polpa' deriva il termine inglese pulp-fiction per indicare la letteratura che noi chiameremmo 'romanzi popolari'. Si trattava infatti di libri a basso costo (e di discutibile qualità letteraria) resi possibili dal basso prezzo della carta prodotta col nuovo metodo.

(39) Il termine 'scienziato' entrerà nell'uso solo nel XIX secolo.

(40) Fare oroscopi era considerato, all'epoca, un'attività istituzionale del matematico, che contribuiva al suo sostentamento. Sappiamo però che nel 1630 Galileo rifiutò di mandare un oroscopo a Tommaso Campanella dicendo di non crederci.

(41) Isaac Newton (1643-1727). Accanto allo scienziato troviamo un grande esperto di alchimia e di "magia naturale".

(42) Sir Francis Bacon (1561-1626). Tra le sue opere ricordiamo il Novum Organum (1620) e il De dignitate et augmentis scientiarum (1623). Leggende vogliono che fosse figlio naturale della regina Elisabetta e che fosse il segreto autore delle opere attribuite a Shakespeare.

(43 )Ludovico Vives (1492-1540) incitava già i filosofi a porre attenzione ai problemi tecnici e ad "abbassare gli occhi sul lavoro degli artigiani e non vergognarsi di chiedere ad essi spiegazioni".

(44) Robert Boyle (1627-1692), fisico e chimico inglese, noto per i suoi esperimenti sui gas e per la omonima legge che mette in relazione la pressione e il volume di un gas a temperatura costante: p*v = k.

(45 )Molte riviste scientifiche europee si intitoleranno proprio 'Comptes Rendu' o 'Rendiconti'.

(46) Solo nel 1489 la famiglia Tasso, di origini bergamasche, ottenne dall'imperatore Massimiliano I il privilegio di gestire un servizio postale esteso all'intero Sacro Romano Impero, anche per la corrispondenza privata. Tale impresa, che impiegava ben 20.000 addetti, permetteva di inviare missive dalla Spagna all'Ungheria o dall'Olanda all'Italia in pochi giorni. Precedentemente solo i governanti, i mercanti e i banchieri disponevano di propri servizi postali che trasportavano lettere e plichi con una certa regolarità.

(47) In alcune situazioni gli autori ricorrevano alla scrittura in codice per assicurarsi la segretezza, proteggere i propri scritti dalla copia dei concorrenti e garantirsi la priorità delle scoperte. Così fu per Galileo, quando usò un anagramma per comunicare a Giuliano de' Medici la scoperta dei satelliti di Giove.

(48) In Italia la prima società scientifica fu l'Accademia dei Lincei di Roma (1603-1651) seguita dall'Accademia degli Investiganti di Napoli (1650) e poi dall' Accademia del Cimento di Firenze (1657-1667). Nel 1609 i Lincei pubblicarono i Gesta Lynceorum che fu il primo esempio di organo ufficiale di una società scientifica.

(49) Denis de Sallo (1626-1669), politico e letterato francese. Anche l'Accademia del Cimento pubblicò in suoi Atti nel 1667.

(50) La Académie des Sciences deve la sua nascita ad un progetto del ministro Colbert che, il 22 dicembre 1666, riunì un piccolo gruppo di dotti nella Biblioteca Reale. Nel 1699 il Re Sole diede alla società il suo primo regolamento.

(51 )Per molto tempo ed in molti casi, la struttura degli articoli pubblicati sulle riviste scientifiche rimase quella della lettera quasi a continuare la corrispondenza tra dotti dei tempi precedenti. Ancora oggi la rivista Nature pubblica una parte dei contributi sotto il titolo di Letters.

(52) Henry Oldenburg (1618-1677), diplomatico e filosofo naturale. Nato a Brema, studiò teologia e poi si trasferì in Inghilterra. Fu uno dei primi membri della Royal Society e il suo primo segretario.

(53) Nel 1645, a Londra, si tenevano informali incontri settimanali in cui si riunivano le persone interessate alle nuove scienze sperimentali. Nel 1660 gli incontri furono formalizzati con la fondazione della Royal Society che ebbe il riconoscimento reale nel 1662. La Royal Society, fin dalle sue origini, adottò i principi sostenuti da Francis Bacon.

(54) Questo numero è comprensivo di tutte le riviste che trattano di una qualsiasi 'scienza' e si riferisce a tutte quelle fondate, senza tener conto delle testate che hanno terminato le pubblicazioni. (da D. de Solla-Price, "Sociologia della creatività scientifica", 1967).

(55) Leonardo da Vinci (1452-1519) non imparò mai bene il latino e si definì "omo sanza lettere". Nel 'Codice Trivulziano'', troviamo lunghi elenchi di ben 8.000 vocaboli dotti. Leonardo non pubblicò né distribuì i contenuti dei suoi appunti, che rimasero sconosciuti fino al XIX secolo e non ebbero alcuna influenza diretta sullo sviluppo della scienza e della tecnologia. Su queste basi, L. Sprague de Camp, nel suo libro Gli antichi ingegneri (Op. cit.), considera Leonardo non il primo degli ingegneri moderni, ma "l'ultimo di quelli antichi". Per spiegare la scrittura speculare di Leonardo, recenti studi propongono la tesi che fosse affetto da una forma di 'dislessia', ma sembra un'ipotesi poco convincente.

(56) Giorgio Bauer, detto Agricola, (1490-1555). Scrisse un approfondito trattato sull'attività mineraria e sulla metallurgia, illustrato con molte raffinate xilografie.

(57) Aristotele, Fisica, 249b.

(58) Philosophiae Naturalis Principia Mathematica.

(59) P. Rossi "I meccanici, gli ingegneri, l'idea di progresso", in P. Rossi 1988, op. cit. (60) Carl von Linneé (1707-1778), naturalista olandese.

(61) Antoine-Laurent de Lavoisier (1743-1794) spesso indicato come il 'padre' della chimica moderna. Enunciò la prima versione della legge di conservazione della massa, scoprì l'ossigeno e contribuì a riformare la nomenclatura chimica.

(62) Un'analisi delle illustrazioni dei libri non può prescindere da quella delle arti figurative del tempo, soprattutto della pittura.

(63) Agostino Ramelli (1531-1608), ingegnere militare Ticinese al servizio di Enrico III, re di Francia e Polonia. Tra gli eccezionali esempi di illustrazione scientifica si ricordano anche il De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, del 1543 e la Micrographia di Robert Hooke del 1665.

(64) L'invenzione della stampa, in realtà, rese più problematico inserire illustrazioni nei libri. Non era facile assemblare, nella composizione tipografica della pagina, le xilografie, le litografie o altre tecniche di riproduzione dei disegni. Spesso le tavole erano prodotte a parte, rifinite e colorate a mano, e vendute separatamente dal volume.

(65) William Playfair (1759-1823), ingegnere ed economista scozzese, nel 1801 pubblicò uno Statistical Breviary.

(66) La statistica, fondata matematicamente da Blaise Pascal (1623-1662) e Jakob Bernoulli (1654-1705), prima che per le scienze esatte fu utilizzata per l'analisi dei dati demografici ed economici, col nome di "aritmetica politica". Il termine stesso 'statistica' è correlato a "stato" e "statista" e fu per la prima volta introdotto da Gottfried Achenwall (1749) a designare l'analisi dei dati relativi alla cosa pubblica. La fiducia illuminista nel determinismo disincentivava, all'epoca, l'uso della statistica per i dati scientifici.

(67) Kronick D.A. 1990, op. cit.

(68) Uno standard che spesso sfocia in una eccessiva uniformità strutturale e lessicale.

(69) Parametro che rappresenta numericamente l'importanza di una rivista scientifica, calcolato sulla base della quantità di citazioni degli articoli ivi pubblicati.

(70) La Seconda Guerra Mondiale e, ancor più, la Guerra Fredda furono un tale stimolo alla ricerca che la produzione di letteratura scientifica crebbe smisuratamente. Oltre a libri e riviste occorre tener conto anche dei rapporti tecnici, dei brevetti, ecc.

(71) Tra i più antichi indici bibliografici in ambito bio-medico, è da ricordare l'Index Medicus, fondato nel 1879 da John S. Billings., trasformatosi poi nel telematico Medline.

(72 )Jean-Claude Guédon, op. cit.

(73 )Op. cit.

(74) Paul Otlet (1868-1944) , avvocato belga che fondò nel 1895, assieme a Henri La Fontaine, l'Istituto Nazionale di Bibliografia (ancora esistente col nome di F.I.D.) e sviluppò la Classificazione Decimale Universale.

(75) P. Otlet, "Essaie d'universalisme", (1935). Un altro utopista condivideva le sue idee: lo scrittore H.G. Wells, noto ai più come autore di fantascienza. Wells lamentava che : "L'assemblaggio e la distribuzione del sapere nel mondo sono oggi estremamemente inefficienti… ".

(76) Nel 1945 Bush scrisse:"[il cervello umano] opera per associazione. Con un elemento di informazione in pugno, esso salta istantaneamente a quello successivo, che gli viene suggerito dall'associazione di pensieri in accordo con un intricato incrocio di percorsi costruiti dalle cellule del cervello" ("As we may think", Atlantic Monthly, 1945).

(77) Il MEMEX non fu mai costruito, ma alcuni dei suoi meccanismi furono sfruttati dai servizi segreti americani per decrittare i codici segreti tedeschi e giapponesi.

(78) Fino al 1950 il termine computer indicava l'impiegato o, più spesso, l'impiegata, che svolgeva, a mano o con l'ausilio di calcolatrici meccaniche, le operazioni aritmetiche per la contabilità, l'ingegneria ecc. Nell'edizione del 1960 dell'Oxford Dictionary compare ancora tale definizione. L'equivalente francese 'ordinateur' fu coniato dal linguista Jacques Perret su richiesta della IBM che voleva evitare di inimicarsi i contabili, proponendo macchine che avrebbero potuto sostituirli.

(79) A. C. Clarke (1917-) è uno dei più noti scrittori di fantascienza, autore fra l'altro del breve racconto "La sentinella" del 1952, a cui si ispirò il regista Stanley Kubrick per il film "2001 Odissea nello spazio".

(80) Charles Babbage (1791-1871) fu un matematico inglese dai poliedrici interessi. Verso il 1840 progettò un calcolatore programmabile automatico per uso generale (cioè un 'computer') interamente meccanico, battezzato 'Analytical Engine'. In mancanza degli elevatissimi finanziamenti necessari non potè mai costruirlo, ma il suo progetto incorporava già, in un certo senso, la stessa architettura logica che sarà poi lo standard dei computer elettronici attuali.

(81) Nel pieno della II Guerra, in Germania, tra il 1941 e il 1944, un ingegnere di nome Karl Zuse costruì in proprio diverse versioni di un calcolatore automatico progammabile, l'ultima delle quali, battezzata Z4, sopravvisse alle distruzioni belliche e divenne operativa nel 1948 al Politecnico di Zurigo. Fino al 1951 rimase l'unico computer funzionante dell'Europa continentale. In USA il primo calcolatore programmabile fu lo Harvard Mark I (1944), seguito da ENIAC nel 1946. In Inghilterra furono costruiti lo EDSAC (1949) e il Manchester Mark I (1949).

(82) La parola 'informatica' è di origine francese: 'informatique', che sta per 'information automatique' ed è dovuta a Philippe Dreyfus (direttore del Centro di Calcolo Elettronico della Bull) nel 1962.

(83) Non erano dei veri e propri computer, ma permettevano operazioni automatiche come la selezione e il riordinamento.

(84) Il termine fu usato per la prima volta dal marketing dell'IBM per definire la modalità elettronica di comporre, revisionare, correggere e stampare documenti scritti. Era la traduzione dal tedesco textverabeitung, coniato negli anni '50 da Ulrich Steinhilper, ingegnere all'IBM.

(85) Il famoso primo messaggio si bloccò dopo il terzo carattere! Chissà quanti avrebbero esclamato "questa cosa non ha possibilità" ! Il senatore Edward Kennedy inviò un telegramma di congratulazioni alla BBN per il suo contratto da un milione di dollari con l'ARPA "… per costruire l'Interfaith Message Processor" ringraziando per l'impegno ecumenico! [Kennedy fraintese Interface (interfaccia) con Interfaith (che significa "fra le fedi")] (da Hobbe's Internet Timeline, Ver. 5.4).

(86) Research And Development, istituto di ricerca militare.

(87 )Joseph Carl Robnett Licklider (1915-1990), fu uno delle personalità più influenti per lo sviluppo dell'informatica negli USA. Come direttore dello Information Processing Techniques Office (IPTO), divisione della ARPA, negli anni '60 approvò il finanziamento di molti progetti avveniristici che porteranno, fra l'altro, ad Internet, alle interfacce grafiche, al mouse, all'ipertesto. Non è esagerato dire che la superiorità che gli USA raggiunsero e mantennero nel settore fu dovuta, in gran parte, all'IPTO.

(88) J.C.R. Licklider, "Man-Computer Symbiosis" (1960) e "On-Line Man Computer Communication" (1962). Nel 1968, Licklider e Robert Taylor (suo successore all'IPTO) pubblicarono il dirompente articolo "The Computer as a Communication Device" .

(89) Tra i tanti 'padri' di ARPAnet (e quindi di Internet) non si possono dimenticare Vinton Cerf, John Postel, Larry Roberts, Bob Kahn, Leonard Kleinrock e Douglas Engelbart.

(90) UCLA, UCSB, SRI e l'Università dello Utah.

(91) Durante la International Conference on Computer Conmmunications (Washington).

(92) La leggenda sul primo messaggio di posta elettronica racconta che nel 1973 Leonard Kleinrock fosse appena ritornato dall'Inghilterra dove aveva partecipato ad una conferenza nella quale si era stabilito un collegamento satellitare con ARPAnet negli USA. Appena sbarcato a Los Angeles, Kleinrock si accorse di aver dimenticato nell'albergo inglese il proprio rasoio elettrico, utilizzò quindi il link sperimentale per inviare un messaggio all'Università di Londra chiedendo di spedirgli il rasoio. Il messaggio fu ricevuto ed il rasoio fu spedito in California.

(93) Anche il termine 'telematica' è di origine francese. Telematique è una sintesi tra "telecommunication' e "informatique", coniata da Simon Nora e Alain Minc nel loro libro "L'informatisation de la Societe" (1978).

(94 )Douglas C. Engelbart (1925-) è un inventore americano di origine norvegese. Ispirato da V. Bush, la sua filosofia è espressa nell'opera: Augmenting Human Intellect: A Conceptual Framework, del 1962.

(95) Era l'epoca dei 'figli dei fiori' e dell'uso dello LSD, soprattutto sulla West Coast. Le droghe erano considerate 'espansori' delle capacità intellettuali.

(96) Lo 'Alto' fu un insuccesso per l'elevato costo e per la scarsa lungimiranza del top management della Xerox. (97) E, infine, anche Microsoft Windows (1985).

(98) Ted Nelson aveva, ed ha ancora oggi, un'idea molto particolare del suo ipertesto e non ne riconosce la struttura nel World Wide Web reale. Perfezionista all'estremo, il suo lavoro è stato più che altro teorico (progetto Xanadu) e non ha mai prodotto alcun risultato pratico. Nel 1967 A. Van Dam creò HES (Hypertext Editing System), un sistema di creazione di strutture ipertestuali per il mainframe IBM S/360. Il primo programma commerciale per ipertesto fu realizzato dalla Xerox nel 1985 col nome di NoteCards e il primo che ebbe successo fu Hypercard scritto da Bill Atkinson per il Macintosh, nel 1987.

(99 )Il primo network di pubblicazione online, rivolto ad una comunità delimitata ma aperta di ricercatori risale alle orgini di ARPAnet. Si tratta delle Requests For Comments (RFC), in cui gli architetti della rete scambiavano suggerimenti, soluzioni ed idee e le sottoponevano a reciproca critica. Proprio nelle RFC si trovano i documenti fondamentali dei protocolli di rete, tra cui ad esempio quello di Tomlinson per la posta elettronica. Le RFC sono ancora disponibili all'indirizzo: http://www.rfc-editor.org/rfc.html.

(100) Era necessario un software dedicato per poterla leggere, poiché lo World Wide Web non era ancora disponibile.

(101) Giles J., "Internet encyclopaedias go head to head", Nature 438, 900-901, 15 dicembre 2005. La metodica e i risultati, dello studio sono stati rigorosamente criticati dagli editori della Britannica (in "Fatally flawed. Refuting the recent study on encyclopedic accuracy by the journal Nature", http://www.britannica.com/). Anche tenendo conto delle corrette obiezioni della Britannica, la differenza tra le due pubblicazioni non è però così abissale come ci si potrebbe aspettare.

(102) Per una trattazione, vedi, ad esempio, Garshol L.M., "Metadata, Thesauri, Taxonomies, Topic maps", (http://www.ontopia.net/topicmaps/materials/tm-vs-thesauri.html) o "Web Publishing: Metadata, Ontologies and Semantics" dello World Wide Web Consortium (http://www.w3c.rl.ac.uk/pasttalks/slidemaker/EPS_DTI/slide1- 0.html).

(103) La digitazione o scansione dell'originale, la assegnazione dei markup e dei tag, la compressione del codice, l'eventuale protezione criptografica, ecc.

(104) In venticinque anni siamo passati attraverso tre generazioni di dischetti magnetici (da 8, da 5 e da 3,5 pollici) e due generazione di supporti ottici (CD e DVD), senza contare una moltitudine di altre forme (nastri, cassette, memorie flash ecc.). Molti nuovi supporti sono già previsti nell'immediato futuro, non sempre compatibili con gli attuali lettori.

(105) Si veda, tra gli altri, la voce 'Digital Preservation.' in Wikipedia (www.wikipedia.org), il manuale "Guidelines for the preservation of digital heritage" dell'UNESCO, "DigitalPreservation Mangement" della Cornell University (http://www.library.cornell.edu/iris/tutorial/dpm/) o il sito della Digital Preservation Coalition (http://www.dpconline.org/graphics/index.html).


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