Webzine Sanità Pubblica Veterinaria®

Numero 15 - luglio 2002
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M. Trabalza Marinucci
Massimo Trabalza Marinucci
<vete3@unipg.it>
Stefania Verzchi
Stefania Verzichi

L'impiego degli indicatori, con particolare riferimento agli n-alcani, per lo studio della dieta negli erbivori domestici e selvatici


Stefania Verzichi, Massimo Trabalza Marinucci
Dipartimento di Tecnologie e Biotecnologie delle Produzioni Animali - Università degli Studi di Perugia


Introduzione
1 Caratteristiche dei marcatori
1.1 Marker esterni
1.1.1 Ossido di cromo (Cr2O3)
1.1.2 Cloruro di litio (LiCl)
1.1.3 Terre rare
1.1.4 Poliammide granulata
1.1.5 Glicol polietilenico
1.2 Marker interni
1.2.1 Sostanze cromogene
1.2.2 Ceneri acido-insolubili
1.2.3 Lignina
2. Problematiche inerenti l'impiego dei marcatori
3. La tecnica degli n-alcani
3.1 Alcani presenti nella cuticola delle cellule vegetali

3.2 Utilizzo degli alcani per la valutazione del livello d'ingestione
3.2.1 Effetto delle variazioni cui possono essere soggetti i componenti dell'equazione per la stima dell'ingestione
   - Analisi chimica dei campioni
   - Dosaggio dell'alcano sintetico (C32)
   - Uso di campioni fecali globali ottenuti da più di un campione giornaliero
   - Uso di campioni fecali prelevati dall'ampolla rettale
   - Concentrazione degli alcani nel pascolo
3.2.2 Considerazioni riepilogative
3.3 Stima della composizione botanica della dieta
3.3.1. Utilizzo degli alcani delle cere vegetali per la valutazione della composizione della dieta
3.3.2. Uso degli alcani per la valutazione dell'ingestione e della composizione della dieta in erbivori non ruminanti e in animali selvatici
Bibliografia


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Introduzione
Gli studi sull'alimentazione degli erbivori sono stati spesso ostacolati dalla difficoltà di stimare in maniera appropriata il livello di ingestione della sostanza secca e dei diversi nutrienti; gli ultimi 50 anni hanno visto lo sviluppo di numerose tecniche per la valutazione dell'ingestione di alimento al pascolo (Langlands, 1975; Dove e Mayes, 1991; Dove e Mayes, 1996; Mayes e Dove, 2000).

Gli animali frequentemente modificano la quantità e la qualità del materiale ingerito, consumando una dieta che differisce, sia dal punto di vista botanico che da quello nutritivo, dall'insieme delle specie botaniche disponibili nell'ambiente. Quando la biomassa vegetale è costituita da poche specie ed è uniforme in termini di valore nutritivo (es. ruminanti domestici al pascolo su prati artificiali) il consumo può essere misurato piuttosto facilmente, benché tutti i metodi di misurazione abbiano limitazioni. Usando tecniche che forniscano campioni rappresentativi del materiale ingerito è infatti possibile determinare l'ingestione, senza necessariamente conoscere la composizione botanica della dieta. Il metodo più utilizzato è quello basato sulla stima della digeribilità dell'alimento consumato (D) e sulla produzione fecale (F). Il livello di ingestione (I) viene calcolato secondo la seguente formula:

I = F / (1-D)        (1)


La raccolta totale delle feci, quando gli animali sono al pascolo, non solo è laboriosa ma rischia anche di arrecare disturbo e di conseguenza influenzare l'ingestione dell'alimento. La produzione fecale viene perciò di solito stimata dalla diluizione nelle feci di un "indicatore" (definito anche "marker"), somministrato per via orale, che deve essere totalmente indigeribile ed assente dalla dieta degli animali. Anche per la determinazione della digeribilità, non potendosi in questi casi utilizzare il sistema convenzionale (cioè il rapporto tra feci prodotte e quantità di alimento ingerita - Schneider e Flatt, 1975), si può fare ricorso all'impiego degli indicatori.

In altre situazioni la stima del consumo dei nutrienti non è possibile senza quantificare la composizione botanica della dieta, poiché le diverse specie differiscono marcatamente nel loro valore nutritivo (Freer e Jones, 1984). La sfida è particolarmente importante per i nutrizionisti che lavorano in situazioni di pascolo intervallato ad ambienti boschivi, dove la biomassa vegetale è maggiormente diversificata rispetto ai prati artificiali, sia in termini di distribuzione spaziale che di specie botaniche coinvolte.
Inoltre, gli animali in tali ambienti sono spesso difficili da individuare e/o catturare per effettuare le necessarie misurazioni; questo è particolarmente evidente quando si studiano erbivori selvatici.

In questa rassegna sono state prese in considerazione alcune delle tecniche che i nutrizionisti utilizzano per valutare il livello di ingestione e la composizione della dieta negli animali, esaminando i problemi inerenti l'uso degli "indicatori". L'attenzione è stata posta in particolare sui recenti sviluppi cui è andato incontro l'impiego di determinati componenti chimici delle cere cuticolari delle piante, costituiti da catene idrocarburiche alifatiche sature (n-alcani).

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1 Caratteristiche dei marcatori
Verranno di seguito descritti brevemente nei loro principi applicativi i più comuni marcatori usati in ricerca per la stima della digeribilità, del livello di ingestione e della velocità di transito lungo il tratto gastro-intestinale (GIT). Il principio che sottintende l'uso di un marker è che, se questo è indigeribile, la sua concentrazione aumenta lungo il GIT con il completarsi del processo digestivo (Galyean, 1987). Le caratteristiche di un marker ideale possono essere individuate nel modo seguente (Faichney, 1975; Galyean, 1987):
  1. il marker dovrebbe essere inerte, non tossico per gli animali e la microflora del digerente;
  2. non dovrebbe essere assorbito o metabolizzato all'interno del GIT, consentendo quindi un tasso di recupero fecale prossimo a 100;
  3. dovrebbe essere fisicamente simile o intimamente associato al materiale da marcare;
  4. non dovrebbe influenzare le secrezioni, l'assorbimento o la motilità del GIT;
  5. dovrebbe avere proprietà fisico-chimiche che ne permettano un'analisi quantitativa precisa senza interferire con altre metodiche.
Nessun indicatore risponde a tutti questi criteri.
In condizioni sperimentali specifiche, comunque, si possono effettuare misurazioni affidabili mediante la scelta di marker appropriati. Il tasso di recupero del marker può essere misurato mediante la raccolta totale delle feci (se si deve valutare l'intero tratto digestivo) oppure tramite il prelievo di materiale duodenale attraverso cannule rientranti impiantate chirurgicamente.
I marker sono generalmente classificati in due gruppi: esterni ed interni.
I primi vengono mescolati con l'alimento o, nel caso di animali fistolati, introdotti direttamente nel rumine.

Esempi di questi sono i coloranti, l'ossido di cromo, le terre rare, la gomma o altri materiali sintetici. Inclusi in questo gruppo sono anche i marker liquidi per la misurazione del flusso gastro-intestinale, quali il glicol polietilenico (PEG), il Cr-EDTA e il Co-EDTA.
Vengono invece definiti marker interni alcuni costituenti naturali indigeribili presenti nell'alimento come la lignina, le sostanze cromogene, le ceneri acido-insolubili e gli idrocarburi a lunga catena.

Un'altra classificazione, alla quale vengono normalmente soggetti i marcatori, è quella in "marker della fase solida" e "marker della fase liquida", a seconda che risultino associati principalmente alla componente solida oppure liquida del materiale gastro-intestinale (Titgemeyer, 1997). Spesso negli studi destinati alla valutazione del transito, ove si impiegano cannule impiantate in organi diversi del GIT (abomaso, duodeno, colon), si adotta la tecnica del doppio indicatore, che consiste nell'utilizzare simultaneamente un indicatore per la fase solida ed uno per la fase liquida. Questo espediente risolve il problema che spesso si pone della non rappresentatività dei campioni raccolti rispetto alla reale composizione del materiale gastro-intestinale.
Naturalmente ciò è vero se i marker seguono un comportamento ideale, cioè risultano associati soltanto ad una fase. Molti marker della fase liquida (glicol polietilenico, Cr-EDTA, Co-EDTA) sembrano essere affidabili; altri marcatori della fase solida, come le terre rare (La, Ce, Sm, Yb), a volte in condizioni di pH acido risultano migrare verso la fase liquida (Crooker e coll., 1982). Infine l'ossido di cromo, non legandosi in maniera specifica a nessuna delle due fasi, non può esser usato in tali sistemi detti del "doppio indicatore" (Merchen, 1988).

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1.1 Marker esterni
I marker usati negli ultimi anni per il rumine o l'intero tratto digestivo includono una serie di sostanze, di natura anche molto diversa, tra le quali le più comuni sono sicuramente il cromo (Udèn e coll., 1980; Kung e Huber, 1983; Sutton e coll. 1983; Zinn, 1989) ed alcuni composti a base di elementi delle cosiddette "terre rare" o "lantanidi", come Yb (Jenkins e Palmquist, 1984; Boggs e coll., 1987; Grummer, 1988) e La (Stern e coll., 1983; Santos e coll., 1984; Kung e Huber, 1983; Keele e coll., 1989).

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1.1.1 Ossido di cromo (Cr2O3)
Il Cr2O3 è il marker esterno più utilizzato, in quanto poco costoso, facile da incorporare nelle diete e relativamente semplice da analizzare in laboratorio. Risulta pressoché inerte nel GIT, tuttavia il recupero fecale spesso non è del 100%. Una rassegna (Titgemeyer, 1997) dedicata all'impiego del cromo come indicatore in animali alimentati con foraggi ha concluso che:
  1. il tasso di recupero fecale è frequentemente diverso dal 100%, soprattutto quando gli animali sono mantenuti al pascolo; ad es., Zinn e coll. (1981) hanno impiegato l'ossido di cromo come marker in vitelloni di razza Holstein e hanno riportato una percentuale di recupero pari al 78,5% dopo raccolta continua per 36 ore del materiale digerito a livello duodenale;
  2. la variabilità individuale risulta molto elevata;
  3. le concentrazioni fecali di cromo mostrano ampie variazioni nell'arco della giornata.
Per quanto concerne quest'ultimo problema, una soluzione è rappresentata dalla costituzione di pool fecali giornalieri risultanti da diversi sottocampioni raccolti in ore diverse.
L'impiego dell'ossido di cromo è spesso criticato in quanto si tratta di un indicatore che non si lega in maniera specifica né alla fase solida né a quella liquida; per ovviare a questa situazione è dunque importante prelevare campioni di digesta (contenuto ruminale, abomasale o duodenale) adeguatamente rappresentativi di entrambe le fasi; il problema non si pone quando la ricerca del cromo deve essere condotta sulle feci.
In alcuni esperimenti che prevedevano la somministrazione dell'ossido di cromo sotto forma di capsule di gelatina si è riscontrata una non perfetta miscelazione del marker con il contenuto ruminale, presumibilmente dovuta ad un sequestro temporaneo in aree particolari del rumine.
Questo fattore potrebbe essere il principale responsabile delle variazioni nell'escrezione giornaliera fecale sopra menzionate.

Infine va ricordato che, se inalato, il Cr2O3 può rappresentare un rischio per la salute; bisognerebbe quindi prestare molta attenzione durante le operazioni legate alla miscelazione dell'indicatore nella dieta o durante la macinazione del materiale fecale ottenuto da animali cui è stato somministrato cromo.

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1.1.2 Cloruro di litio (LiCl)
Il cloruro di litio, così come la 3H2O, appartiene alla categoria dei marker che possono essere monitorati a livello ematico.
Il sistema si basa sull'assunzione che la distribuzione del litio nel plasma è proporzionale al peso vivo, da cui: concentrazione di Li x peso vivo = quantità totale di Li assunto (Suharyono e coll., 1991; Suharyono, 1992).
Quest'ultimo parametro permette di stimare la quantità di alimento marcato ingerito.

Il metodo ha dimostrato di fornire stime accurate dell'ingestione di alimento, anche se bisogna mantenere una certa cautela nella conduzione di tali esperimenti: il LiCl è infatti un potente agente emetico, capace di creare comportamenti di avversione nei riguardi del cibo da parte degli animali.
Kahn (1994) ha effettuato una serie di studi basati sulla stima dell'integrazione alimentare in animali al pascolo: otto agnelloni di razza Merinos dell'età di 10 mesi sono stati alimentati al pascolo con una integrazione costituita da farina di cotone pellettata e rivestita da cloruro di litio; le concentrazioni plasmatiche di litio venivano misurate nelle successive 29 ore.
Tale studio ha dimostrato che la concentrazione massima di litio si aveva 4 ore dopo l'ingestione, rimaneva sostanzialmente costante per le successive 14 ore e decresceva in seguito in maniera progressiva. L'intervallo, compreso tra le 4 e le 9 ore seguenti l'ingestione del litio, è risultato essere sufficientemente affidabile per una stima accurata della quantità ingerita di integratore alimentare.

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1.1.3 Terre rare
Alcuni elementi come l'itterbio (Yb), il lantanio (La), il cerio (Ce), lo scandio (Sc), l'europio (Eu), l'ittrio (Y) e il samario (Sm), conosciuti anche come terre rare, sono stati usati nell'ultimo decennio con frequenza sempre maggiore come marker della fase solida, in alternativa soprattutto al cromo di cui principalmente si lamenta un incompleto recupero fecale.

L'uso di queste terre rare è invalso in un numero piuttosto esteso di specie animali, uomo compreso (Hutcheson e coll., 1979).
Rispetto al cromo sono quasi del tutto inerti, risultano indigeribili, non alterano il peso specifico dei costituenti parietali vegetali e non ne modificano la digeribilità; Udèn e coll. (1980) hanno infatti riscontrato che le pareti delle cellule vegetali venivano rese indigeribili per il 98% a seguito del trattamento con cromo, mentre impiegando il Ce le stesse cellule venivano digerite in vitro in percentuale maggiore del 35%. Gli elementi definiti come "terre rare" sembrano, dunque, non influenzare la cinetica di passaggio dei vari costituenti nel GIT, attraversandolo alla stessa velocità degli stessi nutrienti (Huhtanen e Kukkonen, 1995). Infine, non rappresentano un rischio di tossicità né per l'uomo né per l'ambiente (Austreng e coll., 2000).

Una critica, che viene di frequente mossa all'impiego di tali elementi negli studi sul metabolismo del digerente, è che si ritrovano preferenzialmente associati alle particelle più piccole della fase solida e che in talune circostanze sperimentali migrano dalle particelle marcate ad altre fasi (Huhtanen e Kukkonen, 1995; Combs e coll., 1992; Siddons e coll., 1985). Holst e coll. (1994) hanno stimato l'ingestione di un concentrato in granella (semi di lupino), marcato con Yb acetato, in pecore adulte al pascolo e in stabulazione controllata, e hanno riscontrato una perfetta affidabilità dell'indicatore.
In uno studio per determinare il peso del contenuto del rumine ed il tasso di diluizione a livello ruminale, in vacche in lattazione alimentate con foraggio di graminacee o di erba medica, Shaver e coll. (1988) hanno usato Yb-EDTA, Sm-EDTA e Cr-EDTA rispettivamente come marker del foraggio, del concentrato e della frazione liquida, mentre il La è stato utilizzato come indicatore della digeribilità relativa all'intero GIT.
Sono state riscontrate differenze nei tempi stimati di ritenzione ruminale a seconda che il marker impiegato fosse Yb, Sm oppure Cr.

Huhtanen e Kukkonen (1995) hanno comparato marker diversi nella valutazione delle cinetiche di passaggio attraverso il digerente in bovini alimentati a due livelli d'ingestione (fistolati a livello del rumine e del duodeno).
Le cinetiche post-duodenali sono state valutate utilizzando il Co-EDTA come marker della fase liquida, mentre il Cr e l'Yb come marcatori di quella solida (fieno).
Il tempo medio di ritenzione a livello dei diversi compartimenti (CMRT), il tempo di transito (TT) e il tempo di ritenzione medio totale (TMRT) dei marcatori è risultato decrescere all'aumentare dell'ingestione della sostanza secca.

Le cinetiche post-duodenali di Co, Cr e Yb hanno indicato che non ci sono differenze di passaggio della frazione liquida e solida nel cieco e nella parte prossimale del colon. Il valore di CMRT è risultato più breve per l'Yb che non per il Cr, sia in campioni duodenali che fecali. Austreng e coll. (2000) hanno comparato quindici ossidi di metalli trivalenti (Dy, Er, Eu, Gd, Ho, La, Lu, Nd, Pr, Sc, Sm, Tb, Tm, Y e Yb), usati come marker inerti, in quattro esperimenti volti alla stima della digeribilità apparente nei salmonidi.

Fra tutti, soltanto Er2O3, HO2O3 e Tm2O3 hanno fatto registrare un basso tasso di recupero fecale.
Non è stata riscontrata grande differenza nell'eliminazione fecale dei marcatori utilizzati; nessuno degli ossidi si è rivelato solubile in H2O, mentre è stata variabile la solubilità in HCl per ogni singolo composto.

I risultati hanno dimostrato la loro capacità di fornire stime attendibili a concentrazioni più basse rispetto al Cr2O3.
Il tasso di recupero fecale è stato anche prossimo a 100, in accordo con gli esperimenti eseguiti da Hillestad e coll. (1999). In conclusione non sembra che vi sia assunzione di La2O3 e Yb2O3 in forma solubile a livello gastrico, né che i marker precipitino una volta entrati nell'intestino.
Kung e Huber (1983) attribuirebbero la variabilità dei risultati, a volte riscontrabile in tali sperimentazioni, ai seguenti fattori:
  1. la condizione di "non-steady state" (concentrazione non costante) relativa al flusso del marker e del materiale digerito;
  2. il fenomeno della "migrazione" del marker da una fase all'altra;
  3. la non attendibilità dei campionamenti effettuati mediante le cannule a "T" inserite nel duodeno.

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1.1.4 Poliammide granulata
La maggior parte degli indicatori sopra trattati richiedono per la loro misurazione sofisticate procedure analitiche, spesso non effettuabili in situazioni di scarso supporto tecnologico.
Al contrario le particelle di poliammide, usate per gli studi sulla velocità di transito ruminale e post-ruminale della fase solida, presentano il vantaggio che possono essere rinvenute gravimetricamente con una semplicissima strumentazione di laboratorio.

Tali particelle (diametro: 1-2 mm; lunghezza: fino a 4 mm; peso specifico: 1,10-1,28) mostrano una velocità di transito gastro-intestinale massima nei bovini e nei piccoli ruminanti. Questa caratteristica, unita al facile recupero nelle deiezioni, le rende idonee ad una rapida quantificazione dell'escrezione fecale.
Mahler e coll. (1997) hanno valutato l'escrezione fecale totale di vacche al pascolo in allevamenti estensivi mediante capsule di gelatina contenenti 35, 40 o 45 g di poliammide granulata, somministrate ad intervalli di 12 ore.
Lo studio è stato condotto in Mali su gruppi di Zebù (Bos indicus) con prove sia in campo che in condizioni di stabulazione.
Si è appurato che il periodo di adattamento necessario al raggiungimento della concentrazione costante del indicatore poteva essere limitato a 4 giorni.
E' stato riscontrato che si riusciva ad escludere una sottostima o una sovrastima dell'escrezione fecale se il contenuto in azoto della dieta risultava almeno di 9,26 g/kg di sostanza organica.
In tali circostanze il tasso di recupero fecale del indicatore è risultato essere pari a 98,1% (ES: 0,93) e non influenzabile dalla composizione della dieta e dalla sostanza secca ingerita.
E' stato anche dimostrato che la raccolta dei campioni di feci poteva essere effettuata ad intervalli di 12 h (contro le 7 h inizialmente sperimentate), a patto che venisse stabilito il tasso di recupero fecale del indicatore dipendente dalle circostanze sperimentali (ritmo di ingestione diurna, tempi di somministrazione del marker, durata del periodo di campionamento).

In conclusione, lo studio ha definito che le stime ottenute mediante l'impiego di poliammide granulata erano significativamente correlate con l'escrezione misurata tramite raccolta totale delle feci, rendendo quindi proponibile tale tecnica in circostanze di campo particolarmente disagiate.

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1.1.5 Glicol polietilenico
Il glicol polietilenico (PEG) è stato usato come marker per la frazione liquida in numerosi studi (McAllan e Griffith, 1987; Stock e coll., 1986).
Orskov e coll. (1986) hanno paragonato l'efficacia del Cr-EDTA e del PEG nella valutazione del flusso di N dal rumine e dall'abomaso di ovini. Il Cr-EDTA ha fornito stime del flusso superiori (+8%) a quelle ottenute con il PEG; gli stessi autori hanno concluso che quest'ultimo indicatore poteva essere impiegato con maggiore affidabilità rispetto al primo.

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1.2 Marker interni
I cosiddetti indicatori o marker interni, rappresentati da costituenti vegetali indigeribili, hanno avuto inizialmente un impiego meno diffuso dei marker esterni.
Rispetto a questi ultimi, gli interni hanno il vantaggio di essere più regolarmente distribuiti nel materiale digerito e più intimamente associati con le particelle dell'alimento.
Inoltre, il loro uso associato ai marker esterni rende possibile valutare sia la digeribilità dei nutrienti che la quantità di alimento ingerito, utilizzando campioni fecali presi direttamente dall'ampolla rettale (Schneider e Flatt, 1975). Questa applicazione è particolarmente utile negli animali al pascolo, dove tali tipi di misurazioni sarebbero altrimenti difficoltose. Per molti marker interni l'uso è stato in un certo qual modo limitato dall'incompleto tasso di recupero fecale.

Tra gli indicatori interni sottoposti più frequentemente a valutazione si possono ricordare la silice, le sostanze cromogene vegetali, la lignina, l'azoto fecale e le ceneri acido-insolubili (AIA) (Kotb e Luckey, 1972; Maynard e coll., 1979).
Più recentemente è stato proposto l'uso degli acidi grassi a lunga catena (Body e Grace, 1983) e degli alcani a lunga catena (Mayes e coll., 1986).

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1.2.1 Sostanze cromogene
L'uso dei pigmenti vegetali per la valutazione della metabolizzabilità della dieta nei volatili è risultato da subito interessante perché non costoso, relativamente semplice e non molto dispendioso dal punto di vista del tempo necessario.
L'idea è stata inizialmente suggerita da Reid e coll. (1950) e poi successivamente ripresa anche in studi di digeribilità su specie diverse (ovini), dove il tasso di recupero fecale è risultato essere pari al 101% (Kemmink e Dijkstra 1968).
Ulteriori studi su oche bianche (Anser albifrons) hanno dimostrato un buon recupero di sostanze cromogene nelle feci (Drent e coll. 1978); Buchsbaum e coll. (1986) hanno confermato successivamente che la clorofilla risultava indigeribile dalle oche.
Nonostante ciò, i pigmenti vegetali sono stati usati solo raramente per valutare la metabolizzabilità della dieta negli uccelli selvatici (Boudewijn, 1984; Allport, 1991; Lane, 1994), dal momento che molti ricercatori, avendo riscontrato una non perfetta affidabilità della tecnica, hanno preferito dedicarsi all'uso di altri marker.
Lane e Hassall (1996) hanno riconsiderato l'impiego di questa metodica recentemente.
I risultati delle loro prove indicano che la tecnica può essere utilizzata con successo negli uccelli selvatici, che meno si prestano a studi da condurre in gabbia, e il recupero fecale dell'indicatore è risultato pari al 101,8 ± 11,2%.
Le indicazioni da seguire sarebbero quelle di congelare immediatamente i campioni, di procedere alla liofilizzazione piuttosto che all'essiccamento in stufa e di evitare l'esposizione alla luce. Questo contribuirebbe a non elevare la variabilità, già molto consistente in tutte le prove realizzate.

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1.2.2 Ceneri acido-insolubili
Le ceneri acido-insolubili (AIA) hanno fornito risultati piuttosto soddisfacenti come indicatori da impiegare in studi sulla digeribilità degli alimenti; in letteratura sono reperibili numerose valutazioni dell'affidabilità di tale tecnica effettuate mediante confronto con il metodo convenzionale della raccolta totale delle feci (Block e coll., 1981; Thonney e coll., 1979; van Keulen e Young, 1977).
In altri studi sono stati operati confronti con metodiche differenti (van Keulen e Young, 1977), o sono state fornite informazioni sul range di variabilità a cui sono soggette tali misurazioni (Thonney e coll., 1985).

Block e coll. (1981) hanno determinato che il tasso di recupero fecale delle AIA in vacche da latte e pecore oscillava tra il 98% e il 102%. I coefficienti di correlazione tra i valori di digeribilità determinati mediante raccolta totale e tecnica AIA, per arieti castrati alimentati con mais pianta intera, vacche da latte e arieti castrati alimentati con fieno, sono risultati essere rispettivamente pari a 0,95, 0,95 e 0,40.
Thonney e coll. (1979) hanno variato il concentrato nella razione dallo 0 all'80% e hanno riportato recuperi medi totali percentuali di 52,2-59,3 e 98,9-101,2 usando, rispettivamente, la lignina e le AIA come marker interni.
Gli stessi autori hanno concluso pertanto, che la tecnica dell'AIA poteva essere validamente utilizzata per la determinazione della digeribilità in razioni per vacche da latte a base di fieno e concentrato.

Più recentemente, Miraglia e coll. (1999) hanno paragonato due marker interni quali le AIA e la lignina acido detersa (ADL) con la tecnica della raccolta totale delle feci per la stima della digeribilità apparente in cavalli.
Gli autori hanno riscontrato che la digeribilità apparente non può essere valutata usando l'ADL come marker interno, a motivo del limitato tasso di recupero fecale che conduce ad una sottostima dei valori di digeribilità. Al contrario, la tecnica delle AIA e quella della raccolta fecale hanno portato a risultati pressoché sovrapponibili.
Morales e coll. (1999) hanno effettuato studi sulla digeribilità in trote arcobaleno (Oncorhynchus mykiss) alimentate con sei diverse diete, utilizzando fibra grezza e ceneri acido-insolubili come marker inerti, in alternativa al Cr2O3.
Per tutte le diete sperimentate, quando venivano usate le AIA come marker, i coefficienti di digeribilità sono risultati più alti e quindi non corretti rispetto a quelli ottenuti con l'ossido di cromo, considerato in questo studio il termine di riferimento; la fibra grezza si è rivelata al contrario un indicatore più affidabile, anche se gli autori richiamano l'attenzione sul fatto che dovrebbero essere escluse le eventuali interazioni con il tipo di fibra vegetale presente nella dieta.

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1.2.3 Lignina
I primi studi dedicati alla lignina hanno riportato che questo composto risultava pressoché totalmente indigeribile nell'apparato gastro-intestinale (Ellis e coll., 1946; Kane e coll., 1950). Più recentemente, Muntifering e coll. (1981) hanno riscontrato che il recupero fecale di lignina acido detersa (ADL) in agnelli alimentati con fieno di festuca era del 101%.
Benché la lignina sia stata utilizzata diffusamente in letteratura come marker interno, esisterebbero problemi sia nel recupero fecale che nella quantificazione analitica di tali componenti parietali. Egan e Doyle (1984) hanno osservato che l'uso della lignina conduceva a sovrastime della digeribilità nelle pecore pari a circa il 25%.
Kung e Huber (1983) hanno invece concluso che l'impiego della lignina come indicatore permetteva di ottenere stime più ragionevoli della velocità di transito dei nutrienti, se paragonata ad altri marcatori esterni quali il La o il Cr-EDTA.
Analogamente Windschitl e Stern (1988), a seguito di sperimentazioni tese a confrontare la tecnica della mordenzatura con Cr (per la fase solida), il Co-EDTA (per la fase liquida) e l'ADL, hanno riportato stime troppo basse o addirittura negative inerenti la digestione ruminale sia della sostanza secca che di quella organica, se ottenute a partire dai due marcatori esterni.
Le stime basate invece sull'ADL sono risultate più accettabili sulla base dei valori reperibili in letteratura.
Thonney e coll. (1979), in contrasto con quanto sopra riportato, ha ottenuto valori di recupero fecale della lignina in vitelloni pari al 52,2 e al 59,3%.
E' anche vero che quantità variabili di lignina potrebbero essere digerite o degradate nel tratto digestivo del ruminante (Elam e Davis, 1961; Porter e Singleton, 1971; Grant e coll., 1974; Fahey e coll., 1979, 1980).
Fahey e Jung (1983) hanno suggerito una serie di possibili ragioni per questo incompleto recupero della lignina:
  1. digestione vera (Allison e Osbourn, 1970; Porter e Singleton, 1971);
  2. digestione apparente legata alla formazione di complessi carboidrati-lignina (Hartley, 1973; Gaillard e Richards, 1975);
  3. parziale distruzione delle frazioni di lignina presenti nelle feci ad opera dei comuni reagenti usati nelle metodiche analitiche (Goering e van Soest, 1970);
  4. differenze fisiche e/o chimiche tra l'alimento e le feci nella natura dei materiali empiricamente definiti come lignina in ogni procedura (Fahey e coll., 1979).
Ferret e coll. (1999) hanno posto a confronto, in pecore da latte alimentate con fieno di Lolium italicum o di erba medica, alcuni marker interni quali la fibra acido detersa indigeribile (IADF), la lignina acido detersa (ADL), la lignina acido detersa indigeribile (IADL) e la sostanza secca indegradabile a livello ruminale (RUDM) per la misurazione della digeribilità della sostanza secca.
Gli autori hanno concluso che la digeribilità veniva stimata con la migliore approssimazione impiegando equazioni che contenessero ADL oppure RUDM, mentre il livello di ingestione veniva meglio stimato usando RUDM (e Cr2O3 come marker esterno per la quantificazione delle feci prodotte) in entrambi i fieni studiati.

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2. Problematiche inerenti l'impiego dei marcatori
E' stato sottolineato che l'ingestione di foraggio può essere stimata a patto che la produzione di feci (F, g/giorno) e la digeribilità della dieta (D, g/g) siano conosciute.
L'ingestione (I, g/giorno) può dunque essere calcolata secondo la formula (1) sopra descritta. L'uso dei marcatori per stimare la produzione fecale ha avuto una notevole diffusione.
Tra i marcatori più frequentemente utilizzati si possono citare: a) gli ossidi di metalli insolubili (Cr2O3, TiO2); b) i marker radioattivi (51Cr2O3, 131BaSO4, 22Na, 3H2O); c) vari elementi del gruppo delle terre rare ed i loro radioisotopi (Eu, Dy, 46Sc, 140La, 91Y, 144Ce). L'indicatore più usato in assoluto per questi studi è stato sicuramente il Cr2O3.

formula: uso di marcatori per stimare la produzione fecale


Le più comuni modalità di somministrazione dei marker esterni, in particolare del sesquiossido di cromo, prevedono l'uso di capsule di gelatina oppure di carta imbevuta dell'indicatore.
I possibili errori riscontrabili nella valutazione delle feci prodotte, a seguito di somministrazione di Cr2O3 in un'unica dose o in più dosi giornaliere, sono stati già discussi nel paragrafo dedicato a questo indicatore.
Nel caso del Cr2O3, inoltre, l'uso dell'equazione (1) per la stima dell'ingestione di foraggio in condizioni di pascolo richiede che il RF dell'indicatore sia stimato oppure misurato quantitativamente; la digeribilità della dieta viene di norma considerata identica per tutti gli animali.

Più recentemente, sono stati sviluppati e testati alcuni dispositivi in grado di rilasciare giornalmente una quantità di Cr2O3 costante a livello ruminale (Controlled Release Device, CRD). La riduzione di lavoro, resa possibile dall'uso dei Cr-CRD, ha così permesso l'impiego di questo indicatore in un più largo numero di animali, rispetto a precedenti lavori nei quali il marker veniva dosato manualmente; tuttavia l'interazione che sembra sussistere tra il rilascio della dose giornaliera e le diverse condizioni alimentari richiede ulteriori valutazioni (Dove e Mayes, 1991; Langlands, 1975, 1987; Parker e coll., 1990; Furnival e coll., 1990a, 1990b; Laby e coll., 1984; Buntinx e coll., 1992; Luginbuhl e coll., 1994).
Anche ipotizzando che il recupero fecale sia conosciuto e che non vari tra animali e nell'ambito dello stesso animale, il punto controverso nell'impiego degli indicatori resta la stima della digeribilità.

Una lunga serie di sostanze ritenute indigeribili, da utilizzare per valutare la digeribilità a partire dalle loro concentrazioni nella dieta e nelle feci, sono state studiate dai ricercatori di nutrizione animale (Dove e Mayes, 1996): sostanze cromogene, lignina, ceneri acido-insolubili e fibra acido-detersa indigeribile sono state variamente proposte e valutate. Inizialmente la fibra acido-detersa indigeribile è apparsa come un marker interno abbastanza promettente, ma in conclusione nessuna di queste si è dimostrata perfettamente affidabile in ogni circostanza sperimentale (Langlands, 1975, 1987; Dove e Coombe, 1992; Penning e Johnson, 1983).
La ragione preponderante è che spesso quello che si analizza come marker nella dieta potrebbe essere chimicamente differente da quello misurato nelle feci.
Per tali motivi i metodi di stima della digeribilità più largamente utilizzati sono state le tecniche di incubazione in vitro, che mimano il processo digestivo utilizzando liquido ruminale in presenza di tampone (a cui segue incubazione in pepsina), oppure preparazioni a base di cellulasi; è sempre necessaria una precedente taratura con analoghe valutazioni in vivo (Jones e Hayward, 1975; Tilley e Terry, 1963).
I campioni della dieta vengono ottenuti mediante raccolta manuale oppure, preferibilmente, da materiale ingerito da animali muniti di fistola esofagea.
Holechek e coll. (1986) e Ayres (1991) hanno puntualizzato che le normali procedure utilizzate per la determinazione della digeribilità in vitro non sempre forniscono stime affidabili della digeribilità in vivo.
Tralasciando che i campioni di materiale estruso potrebbero non rappresentare correttamente la dieta consumata da animali non fistolati, almeno tre sono gli inconvenienti che la tecnica della digeribilità in vitro comporta:
  1. i risultati sono spesso applicati ad animali appartenenti a categorie (o addirittura specie) diverse, o con livelli di ingestione differenti, rispetto a quelli usati per condurre le prove di digeribilità in vitro o in vivo;
  2. l'analisi della digeribilità in vitro fornisce un singolo valore che viene applicato a tutti gli animali facenti parte del test, malgrado il fatto che la digeribilità potrebbe differire sostanzialmente tra gli individui;
  3. la procedura della digeribilità in vitro non può prendere in considerazione le possibili interazioni tra i componenti della dieta, quali concentrati ricchi di proteina o amido, che influenzano la digestione degli alimenti fibrosi. La tecnica, quindi, non è valida per animali che ricevono diete miste.
Langlands (1975) ha dimostrato che un errore proporzionale di 0,01 nella stima della digeribilità, per valori di quest'ultima pari a 0,60, 0,70 e 0,80, porta ad un errore nella stima dell'ingestione pari rispettivamente al 2,5, 3,3 e 5,0 %.
In relazione agli inconvenienti suddetti, la procedura che prevede l'impiego di Cr2O3, con stima della digeribilità in vitro, non può essere utilizzata per valutare il livello di ingestione alimentare individuale.
A tale riguardo, la stima dell'ingestione utilizzando una combinazione di indicatore interno ed esterno, come prevede la "tecnica degli n-alcani" di seguito descritta, evita il problema sopra esposto in quanto la digeribilità della dieta non viene richiesta.

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3. La tecnica degli n-alcani
3.1 Alcani presenti nella cuticola delle cellule vegetali
Le cere delle cuticole vegetali sono molecole chimiche complesse, che in particolare contengono n-alcani (idrocarburi saturi), largamente diffusi nella maggior parte delle specie e relativamente facili da analizzare. La formula generale degli n-alcani è CnH2n+2 ( dove n = numero degli atomi di carbonio).
Oro e coll. (1965) sono stati tra i primi ad osservare che le feci dei bovini contenevano un numero piuttosto elevato di paraffine, tra le quali predominavano n-nonacosano (C29H60), n-entriacontano (C31H64) e n-tritriacontano (C33H68).
Gli stessi autori avevano anche ipotizzato che tali paraffine derivassero dalle specie vegetali ingerite, in quanto era noto che le cere ne contavano quantità elevate, e che fossero pressoché indigeribili.
Nel caso specifico delle specie erbacee, gli n-alcani esibiscono una notevole preponderanza delle catene dispari rispetto alle pari nel range C25 - C36. Possono essere riscontrate anche notevoli differenze tra specie nella concentrazione degli alcani.
Per esempio, le graminacee presentano di norma una maggiore concentrazione di catene idrocarboniche C33, rispetto alle C29, se paragonate alle leguminose dei climi temperati.
Tale differenziazione nella distribuzione degli alcani consente un approccio di tipo chimico alla stima della composizione botanica del pascolo o della dieta consumata.

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3.2 Utilizzo degli alcani per la valutazione del livello d'ingestione
Gli n-alcani sono stati utilizzati per la prima volta come marcatori da Mayes e Lamb (1984).
In questo lavoro è stato dimostrato che, nell'ovino, il recupero fecale degli alcani non è completo, ma diminuisce progressivamente al diminuire della lunghezza della catena carboniosa.
Questo è stato più volte confermato da diversi studi, riesaminati in dettaglio da Dove e Mayes (1991).

Mayes e coll. (1988) hanno stabilito che nel tratto digestivo dei ruminanti si verifica una sintesi di alcani irrilevante e che, sebbene gli alcani siano prevalentemente associati alla fase solida, l'incompleto recupero fecale è da ascrivere all'assorbimento da parte del piccolo intestino.
Ne consegue che, se gli alcani naturali devono essere usati come marker per valutare la digeribilità, diventa necessaria una correzione per l'incompleto recupero fecale.
Mayes e Lamb (1984) hanno ottenuto un recupero fecale pari a 0,975 per il C35, mentre Dove e Mayes (1991) hanno più tardi riscontrato, sempre nell'ovino, un valore medio di 0,948 ± 0,0102.
Assumendo come sufficientemente corretto un valore di recupero fecale pari a 0,95, il C35 è stato più volte utilizzato con successo come marker per la digeribilità nell'ovino; i risultati sono stati più accurati di quelli ottenibili mediante tecniche in vitro (Dove e coll., 1990) o impiegando come marker la lignina (Dove e Coombe, 1992).
Percentuali di errore maggiore possono essere ottenute nei bovini, per i quali il recupero fecale degli alcani sembra essere più basso e più variabile che nella pecora (Dove e Mayes, 1991).
Un ulteriore svantaggio legato all'uso del C35, come marker per la digeribilità, è che molte specie vegetali lo contengono in concentrazioni molto basse.
Mayes e coll. (1986) hanno in seguito proposto una procedura per valutare il livello di ingestione che si basa semplicemente sull'esame di una coppia di alcani.
La tecnica prevede la somministrazione di una quantità conosciuta di alcani a catena pari (per es. C32, n-dotriacontano) e la valutazione del rapporto tra la concentrazione fecale del n-alcano naturale (es. C33, n-triacontano) e quella del n-alcano di sintesi somministrato (C32).
Questo presuppone anche che siano note le concentrazioni di entrambi gli alcani nell'alimento. La formula è la seguente:

formula per valutazione livello di ingestione
dove:
I è l'ingestione espressa in kg di sostanza organica (SO)/die;
D32 è la dose giornaliera di C32 (mg/giorno);
F32 e F33 sono le concentrazioni fecali di C32 e C33 (mg/kg SO);
H32 e H33 sono le concentrazioni di C32 e C33 (mg/kg SO) nell'alimento.


Questa tecnica, al contrario di quella basata sul Cr2O3 o su altri analoghi marker esterni, non richiede la conoscenza della digeribilità della dieta e non presuppone il recupero quantitativo degli n-alcani utilizzati come marcatori. Per l'uso della formula è necessario che il recupero fecale di entrambi gli alcani, sia quello naturale che quello sintetico somministrato, sia lo stesso.
Le informazioni pubblicate in letteratura permettono di affermare che non ci sono differenze significative nel tasso di recupero fecale del C32 e del C33. In generale, i risultati sperimentali mostrano (Mayes e coll., 1986; Vulich e coll., 1991; Vulich e Hanrahan 1992a) che la tecnica degli n-alcani è in grado di fornire stime accurate e precise dell'ingestione.

Dove e Mayes (1991) hanno riscontrato che gli alcani C32 e C33 presentano valori di recupero rispettivamente di 0,868 ± 0,0175 e 0,872 ± 0,0125.
Raffronti tra livelli d'ingestione ottenuti con tale tecnica oppure misurati realmente mostrano una buona corrispondenza.
La risposta è lineare e l'errore nella stima dell'ingestione è di 1,25% per ogni differenza di unità percentuale tra il recupero fecale dei due alcani.
Come ha dimostrato Langlands (1975; 1987), gli errori nella valutazione della digeribilità con il sistema "Cr2O3/tecnica in vitro" comportano invece maggiori imprecisioni nella stima dell'ingestione, soprattutto quando la digeribilità della dieta è elevata.
In bibliografia sono reperibili numerose citazioni sull'argomento.
Unal e Garnsworthy (1999) hanno verificato la sostanziale affidabilità della tecnica degli n-alcani in vacche da latte stabulate e alimentate con diverse diete a base di fieno o insilato: i valori di R2 relativi all'ingestione stimata su quella effettivamente misurata hanno oscillato da 0,81 a 0,99.
In un altro esperimento Dove e coll. (2000) hanno valutato in pecore l'effetto dello stadio fisiologico (gestazione, inizio lattazione e fase centrale della lattazione) e dell'aggiunta di concentrato alla razione (500 g al giorno di mangime pellettato) sull'efficacia di alcani e Cr2O3 somministrati 2 volte al giorno in capsule di gelatina. Il livello di ingestione è stato stimato usando le coppie di alcani C27/C28, C29/C28, C31/C32 e C33/C32.
I valori delle stime ottenuti con le catene più corte di alcani sono risultati più bassi di quelli ottenuti con la coppia C33/C32, la quale ha anche fornito risultati più attendibili rispetto alla procedura basata sul cromo.
La somministrazione di concentrato non ha influenzato la stima in nessun caso, mentre sono state riscontrate interazioni significative tra stadio fisiologico e tipo di indicatore impiegato per la stima.
Un importante punto stabilito da questo esperimento è stato che la produzione fecale, una volta corretta per l'incompleto recupero fecale dell'indicatore, risulta identica a prescindere dal tipo di tecnica impiegata; questo porta a concludere che le differenze riscontrate nella stima dell'ingestione non sono legate ad errori nel calcolo della produzione fecale ma a stime sbagliate della digeribilità della dieta.

Nel caso particolare esaminato dal lavoro, gli autori hanno concluso che la digeribilità in vitro non corrispondeva ai valori della digeribilità in vivo.
La somministrazione per via orale degli alcani di sintesi a catena pari è stata in passato per lo più eseguita mediante pellet, oppure tramite carta triturata e imbevuta degli stessi alcani (Dove e coll., 1989; Mayes e coll., 1986), o ancora per mezzo di capsule di gelatina contenenti alcani miscelati a cellulosa polverizzata (Dove e coll., 1989, 1992; Vulich e coll., 1991).
Una soluzione alternativa è stata proposta da Marais e coll. (1996), che hanno somministrato particelle di foraggio macinato rivestite di n-alcani in una sospensione di gomma xanthan mediante pistola dosatrice; gli autori hanno concluso che tale sistema non conduceva a differenze significative nella concentrazione degli alcani fecali, rispetto al dosaggio effettuato direttamente in ambito ruminale tramite fistola, e che nel complesso la procedura risultava più semplice ed economica.
Come con il metodo del Cr2O3, sono necessari dai 5 ai 7 giorni dall'inizio del dosaggio per raggiungere un equilibrio nella concentrazione degli alcani nelle feci (Dove e coll., 1989, 1991; Mayes e coll., 1986).
La variazione giornaliera nell'escrezione fecale degli alcani è minima negli ovini, sottoposti a dosaggio unico giornaliero con alcani impregnati nella carta o con doppio dosaggio giornaliero a base di alcani miscelati a cellulosa, ma potrebbe invece essere elevata nei bovini (Dillon, 1993; Dove e Mayes, 1991).
Comunque, il rapporto tra le concentrazioni fecali della coppia di alcani è meno legato alle variazioni temporali che non alle loro concentrazioni assolute.
Sibbald e coll. (2000) hanno studiato l'effetto della frequenza di somministrazione degli n-alcani (C32) sulla stima dell'ingestione in pecore Scottish Blackface.
Gli animali erano suddivisi in due gruppi, entrambi composti da 12 individui ed alimentati con foraggio pellettato; al primo gruppo l'indicatore veniva somministrato 1 volta al giorno, mentre al secondo 2 volte. I risultati più precisi sono stati ottenuti con una sola somministrazione giornaliera, probabilmente a causa delle variazioni diurne del tasso di ingestione e del flusso di alimento digerito dal rumine.

Per ridurre la mole di lavoro legata alla somministrazione degli alcani sintetici (una o più volte al giorno), che può diventare proibitiva in studi su larga scala, è stato ideato un dispositivo intraruminale a rilascio controllato (CRD, analogo al modello già descritto per il Cr2O3), le cui performance sono state valutate nelle principali specie di ruminanti (Dove e coll., 1991).
Le dosi giornaliere di alcani rilasciate dal CRD mostrano una sufficiente concordanza con quanto dichiarato dalla ditta produttrice (coefficiente di variabilità: 1,5-4%). Come per il Cr2O3, il sistema ha il vantaggio di ridurre sostanzialmente il disturbo agli animali e di minimizzare la probabilità che ci siano variazioni giornaliere significative nell'escrezione del indicatore.
Chen e coll. (1999) hanno valutato l'efficienza dei due indicatori (alcani o ossido di cromo) relativamente alla stima della produzione fecale giornaliera in pecore al pascolo, in entrambi i casi con dispositivi a rilascio controllato; gli autori hanno concluso che non sussistevano differenze significative tra i due sistemi.
Studi condotti in condizioni di stabulazione hanno mostrato che la tecnica degli n-alcani per la valutazione del livello d'ingestione è affidabile (Mayes e coll., 1986; Vulich e coll., 1991).
Una validazione assoluta della metodica per animali al pascolo è virtualmente impossibile da raggiungere, perché è difficile che i sistemi alternativi di misurazione possano essere considerati più affidabili.
La principale precauzione richiesta nell'uso del metodo è di assicurare che i campioni di alimento, prelevati per l'analisi degli alcani presenti, siano rappresentativi della dieta consumata dagli animali.
Ciò è particolarmente facile da fare manualmente quando si opera in condizioni di pascolo uniforme.
Quando, invece, gli animali si alimentano in sistemi vegetali complessi, potrebbe essere estremamente difficile o impossibile ottenere campioni rappresentativi della dieta.
In tali situazioni, la caratterizzazione della composizione botanica della dieta è l'unico sistema che permette di impiegare la tecnica degli alcani, le cui concentrazioni dovrebbero essere determinate in tutte le singole specie vegetali assunte dagli animali al pascolo.

Oltre alla stima del livello di ingestione, la tecnica degli n-alcani comporta una serie di ulteriori vantaggi:
  1. ammesso che i campioni di alimento siano rappresentativi della dieta, il metodo prende in considerazione le variazioni di digeribilità tra singoli animali e fornisce valori di ingestione individuali. Può quindi essere usato anche negli studi di genetica per valutare le differenze individuali in ambito di capacità di ingestione, digeribilità ed efficienza di conversione alimentare;
  2. la tecnica consente di stimare in un'unica analisi anche la digeribilità della dieta (senza ricorrere ad altri marker esterni), infatti il C36, altro alcano sintetico che può essere somministrato insieme al C32, ha dimostrato di avere un tasso di recupero fecale molto elevato e costante (0,947 ± 0,0139);
  3. il metodo può prendere in considerazione anche diete miste, cioè contenenti integrazioni con concentrato, a patto che si conosca il livello di integrazione o possa essere misurato con qualche tecnica alternativa. L'equazione (4) è infatti stata successivamente modificata per consentire tali tipi di stime (Dove e coll., 1995). Inoltre, può consentire la stima della proporzione di un determinato foraggio nella quantità di sostanza secca (SS) ingerita: Hameleers e Mayes (1998) hanno sperimentato tale possibilità in vacche da latte a cui veniva somministrato C32 sotto forma di pellet e C36 miscelato ad insilato, che costituiva l'integrazione al pascolo;
  4. La tecnica può essere usata per stimare i consumi individuali in animali stabulati in gruppo. Questo potrebbe anche essere utilizzato in prove di larga scala in condizioni di allevamento in feedlot, dove l'indice di conversione può assumere una notevole importanza;
  5. il metodo consente anche la misurazione simultanea della composizione botanica della dieta (vedi capitolo successivo), permettendo di quantificare il consumo delle singole specie vegetali o di parti di esse.

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3.2.1 Effetto delle variazioni cui possono essere soggetti i componenti dell'equazione
per la stima dell'ingestione

L'espressione (4), precedentemente illustrata per il calcolo dell'ingestione, prevede la conoscenza di alcuni fattori quali la dose giornaliera dell'alcano di sintesi e il rapporto tra le concentrazioni degli alcani della coppia prescelta (es. C32 e C33) sia nelle feci che nel foraggio. Ogni variazione, sia sistematica che casuale, di questi componenti può riflettersi sulla precisione e sull'affidabilità del metodo.

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Analisi chimica dei campioni
Vulich e Hanrahan (1990) hanno valutato le possibili variazioni legate al campionamento in laboratorio, alle analisi chimiche e alle procedure gas-cromatografiche.
Sono state realizzate varie prove che hanno previsto il confronto fra risultati ottenuti analizzando un solo campione oppure sottoponendo lo stesso a diverse letture al gas-cromatografo, o ancora analizzando diversi sottocampioni realizzati a partire dallo stesso campione di origine.
Gli autori hanno concluso che nel complesso la variazione legata alle procedure di laboratorio è del 2-3% e che non appare necessario sottoporre a trattamento o leggere i campioni al gas-cromatografo in doppio, dal momento che il miglioramento nella stima dell'ingestione risulta irrisorio (coefficiente di variabilità: 0,200 vs. 0,209).

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Dosaggio dell'alcano sintetico (C32)
La quantità di C32 da somministrare dovrebbe essere vicina alla quantità di C33 contenuto nel foraggio ingerito dall'animale; questo per assicurare una certa parità nell'errore analitico legato ad entrambi gli alcani durante le procedure di laboratorio.
E' stato valutato (Vulich e Hanrahan, 1992a) che la normale variabilità nella concentrazione giornaliera dell'alcano sintetico, dovuta alle peculiarità della via di somministrazione (2,5-8% per i pellet; 2-3% per le capsule; 1-4% per i CRD intraruminali), non ha nessun effetto sulla accuratezza del metodo e ha effetti molto contenuti sulla sua precisione (quando il coefficiente di variabilità legato al giorno di somministrazione passa dallo 0 all'8%, il coefficiente di correlazione tra ingestione reale e stimata peggiora dallo 0,94% allo 0,90%).
Un discorso a parte va, invece, fatto per la variabilità che può sussistere nel rilascio del C32 da CRD intraruminali utilizzati in animali diversi, che secondo Lee e coll. (1991) può raggiungere valori anche pari all'8%: la precisione della stima dell'ingestione in questo caso ne sarebbe significativamente influenzata.

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Uso di campioni fecali globali ottenuti da più di un campione giornaliero
Vulich e Hanrahan (1992b) hanno verificato se l'impiego di campioni globali, realizzati a partire da più campioni elementari prelevati giornalmente per un periodo di una settimana, potesse peggiorare la precisione della stima.
E' stato concluso che i miglioramenti nella precisione della stima ottenuta con campioni elementari (coefficiente di variabilità: 0,06) sono molto limitati e per lo più non significativi all'analisi statistica rispetto alle stime ottenute con miscele di campioni elementari, anche realizzate su base semplicemente volumetrica (coefficiente di variabilità: 0,07).

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Uso di campioni fecali prelevati dall'ampolla rettale
Un'altra possibilità semplice da realizzare è quella di prelevare campioni di feci direttamente dall'ampolla rettale, operazione che può essere effettuata durante la somministrazione dell'alcano di sintesi per ridurre al minimo il disturbo dell'animale.
Vulich e Hanrahan (1992b) hanno dimostrato che la realizzazione di campioni globali a partire da campioni di feci prelevate in questo modo (anziché a partire dalle feci totali prodotte giornalmente) comporta errori nella precisione della stima molto ridotti, pari in media all'1,4%.
Gli stessi autori, in un successivo esperimento (Vulich e Hanrahan, 1995), hanno verificato che il livello di ingestione calcolato tramite l'analisi di campioni globali di feci era più basso del 3% rispetto a quello basato sull'esame di campioni fecali giornalieri.
Al contrario, il calcolo basato sull'uso di campioni rettali determinava una sovrastima dello stesso parametro pari al 6%, ma in nessun caso tali differenze risultavano significative all'analisi statistica.

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Concentrazione degli alcani nel pascolo
Il metodo che si utilizza per prelevare i campioni del foraggio pascolato è estremamente importante, perché dovrebbe riflettere nella maniera più fedele il comportamento di ingestione e selezione dell'animale.
Malossini e coll. (1990) e Laredo e coll. (1991) hanno verificato che le diverse specie vegetali esibiscono un'ampia variabilità nella concentrazione in n-alcani in dipendenza da stadio di maturazione, stagione, temperatura, altitudine e umidità, oltre che naturalmente dalla parte anatomica della pianta presa in considerazione.
Per esempio, di norma gli steli hanno una minore concentrazione di alcani che non le foglie, quelle più vecchie presentano inoltre una maggiore concentrazione di alcani a lunga catena rispetto alle foglie più giovani; infine tra foglie vecchie e giovani esiste quasi sempre una differenza significativa nella concentrazione totale di alcani (Dove e coll., 1996).
Il metodo migliore è sicuramente quello di disporre di animali fistolati all'esofago, che secondo Forbes e Beattie (1987) non si comporterebbero diversamente dagli altri animali per quanto concerne l'attività alimentare.
E' ovvio che tale possibilità non sempre sussiste; inoltre, a parte le considerazioni morali o legate al benessere animale, esistono limitazioni anche nel mantenimento di tali animali fistolati. In alternativa a questo sistema, i campioni di foraggio vengono di norma prelevati manualmente, mimando il comportamento dell'animale ("hand-plucking"), oppure mediante sfalcio meccanico.
Il numero dei campioni da prelevare è relativo all'accuratezza e alla precisione richiesta dalla stima, che a sua volta dipende dalla variabilità nella composizione della cotica erbosa. In una serie di prove condotte da Vulich e Hanrahan (1992b) non sono state riscontrate differenze significative tra l'errore associato al campionamento con animali fistolati e quello associato alle tecniche di prelievo meccaniche o manuali.
E' naturale comunque che in questo ambito riveste una grossa importanza la composizione del pascolo: per cotiche erbose ricche di essenze botaniche diverse o per ambienti dove il pascolo è inframmezzato ad aree arbustive e/o boschive, diventa fondamentale un'estrema attenzione nelle procedure di campionamento.

Per ciò che concerne la variabilità temporale, sono state riscontrate differenze significative nella concentrazione di alcani del pascolo sia tra settimane che tra giorni nell'ambito della stessa settimana (P<0,05).
Il coefficiente di variabilità della concentrazione di C32 e C33 nel foraggio è risultato essere pari rispettivamente a 0,14 e 0,09.
In particolare, si è anche evidenziato che la variabilità della concentrazione di C33 causa errori molto più grandi nella stima dell'ingestione, che non quella del C32.
Questa situazione è quindi particolarmente delicata quando si confrontano pascoli diversi o condizioni sperimentali differenti; tali variazioni invece sono del tutto ininfluenti quando il confronto viene realizzato fra trattamenti diversi nell'ambito dello stesso pascolo.
Infine, è stato anche provato che le stime dell'ingestione, conseguite a partire dal semplice rapporto delle concentrazioni dei due alcani nelle feci, sono strettamente correlate a quelle ottenute con l'equazione completa (4).
Questo si rivela di grande utilità quando sono necessarie solo stime comparative fra animali o gruppi di animali e non interessa l'ingestione da un punto di vista prettamente quantitativo.

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3.2.2 Considerazioni riepilogative
Uno dei problemi che ci si pone con l'impiego della tecnica degli alcani, ed in generale con quello di tutti gli altri indicatori, consiste nel determinare quale sia il numero minimo di campioni prelevabili (sia di feci che di pascolo) senza troppo compromettere l'accuratezza e la precisione della stima. Ridurre il numero dei campioni talvolta appare non solo auspicabile per diminuire il carico di lavoro, ma anche consigliabile per non disturbare in maniera eccessiva gli animali.

Va puntualizzato quindi che la correlazione fra il livello di ingestione (sia reale che stimato) diminuisce con l'aumentare dell'intervallo fra misurazioni consecutive.
Un'altra considerazione di carattere generale è che la ripetibilità dell'ingestione stimata con l'uso degli indicatori è sempre maggiore di quella dell'ingestione reale (in media +15%); questo è dovuto al fatto che la concentrazione degli indicatori nelle feci riflette sempre l'ingestione dei 2-3 giorni precedenti la misurazione, quindi rappresenta una sorta di valore medio piuttosto che il valore legato a quel particolare giorno.

La ripetibilità fra stime consecutive di ingestione risulta, infine, sempre inferiore per animali al pascolo che non per animali in stabulazione.
Questo può essere legato a numerosi fattori come ad esempio:
  1. una maggiore variabilità insita nelle condizioni stesse del pascolo;
  2. una scarsa adattabilità degli animali alle condizioni della gabbia metabolica che ne può deprimere l'ingestione in maniera costante;
  3. una minore correlazione fra ingestione reale e ingestione stimata nelle condizioni del pascolo;
  4. una maggiore variabilità giornaliera nella composizione della dieta al pascolo (che ne modifica quindi anche il contenuto in alcani).
In conclusione, la correlazione che ci si aspetta fra ingestione stimata e reale sulla base di 5 giorni consecutivi di misurazioni è pari a 0,92, mentre tale valore scende a 0,88 e 0,85 rispettivamente per misurazioni effettuate in 3 oppure 2 giorni nell'ambito della settimana.
Analogamente, è stato riscontrato che, effettuando campionamenti per 5 giorni alla settimana e per 4 settimane consecutive, il rapporto fra ingestione reale e stimata risulta pari a 0,94, mentre scende a 0,91 se le misurazioni vengono effettuate solo su due settimane consecutive ed a 0,88 se sono praticate a settimane alterne.
Berry e coll. (2000) hanno valutato la precisione della stima del livello di ingestione in bovini, basandosi sull'uso di CRD contenenti alcani; i risultati sono stati più attendibili se il campionamento delle feci veniva eseguito su 7 giorni consecutivi piuttosto che su 5, per diete con o senza concentrato, ma l'entità della differenza tra le due stime risultava comunque molto modesta.
In generale, i valori di variabilità sopra considerati sono piuttosto contenuti ed indicano che sarebbe più conveniente, ai fini di una migliore rappresentatività del gruppo, campionare un numero maggiore di animali anche se a scapito della frequenza del campionamento stesso.

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3.3 Stima della composizione botanica della dieta
Le specie vegetali o le diverse parti di una pianta possono differire marcatamente in valore nutritivo, per cui la composizione botanica della dieta può avere un effetto profondo sul bilancio nutritivo dell'animale.
Questo può, ad esempio, rivestire un'importanza particolare nel caso delle leguminose, la cui prevalenza nella dieta solitamente si ricollega a performance migliori degli animali (Freer e Jones, 1984).
Per gli animali allevati in maniera estensiva o per quelli selvatici il consumo di determinate specie piuttosto che altre non solo ha effetti sul livello nutritivo dell'animale, ma può avere anche conseguenze importanti sulla composizione della biomassa vegetale e quindi sulla sostenibilità dell'ecosistema.
Sono possibili una serie di tecniche diverse per valutare la composizione della dieta negli erbivori (Holechek e coll., 1982a; Norbury e Sanson, 1992).
Una di queste comporta l'osservazione diretta degli animali e la registrazione dei tempi trascorsi nelle diverse comunità vegetali, oppure i tempi di prensione delle singole specie, da cui si può estrapolare grossolanamente la composizione della dieta (Norbury e Sanson, 1992).

Il metodo è evidentemente più facile da applicare nelle situazioni in cui le piante sono spazialmente separate.
Benché sia possibile l'uso di videocamere e di tecniche di monitoraggio telemetrico, che consentono osservazioni per lunghi periodi, lo svantaggio principale del metodo è la difficoltà di dover convertire tempi di pascolo o atti di prensione in una stima accurata della quantità realmente consumata di quella pianta.
L'esame del contenuto stomacale dopo la macellazione dell'animale è un'altra procedura usata estesamente in erbivori selvatici in ambienti naturali e semi-naturali (Norbury e Sanson, 1992).
Dato che è possibile una sola osservazione per animale, il metodo è costoso e non permette la valutazione della variabilità temporale all'interno dell'animale.
La tecnica fornisce inoltre solo indicazioni per il breve periodo, dal momento che riflette la composizione della dieta consumata nel periodo antecedente alla macellazione.
L'uso di animali fistolati all'esofago procura una serie importante di vantaggi: possono essere effettuate misurazioni ripetute ed il campione è meno soggetto a deterioramento causato dai processi fermentativi (Langlands, 1975; 1987).

Tali animali devono essere manipolati frequentemente e devono essere facili da recuperare, quindi si possono impiegare solo erbivori domestici o comunque molto mansueti.
I campioni ottenuti da animali così fistolati rappresentano il materiale ingerito durante una singola stazione di alimentazione. Lasciare gli animali a digiuno per poche ore prima della raccolta consente di minimizzare gli episodi di rigurgito e di evitare che questi restino senza mangiare durante il periodo dell'osservazione, ma in tale modo si influenza il comportamento alimentare con il rischio che diventi non rappresentativo della situazione oggetto di studio.

L'esame microscopico di frammenti fecali di cuticola vegetale è stata la tecnica più largamente utilizzata sia negli animali domestici che in quelli selvatici (Holechek e coll. 1982a; Norbury e Sanson 1992).
L'utilizzo del materiale fecale permette di realizzare stime della composizione media della dieta nell'ambito di un certo numero di giorni.
Il fatto che specie diverse possano anche avere digeribilità differenti può influenzare il numero e le dimensioni dei frammenti presenti nel materiale fecale e quindi la stima che ne deriva (McInnis e coll., 1983).
Tale tipo di effetto sembrerebbe portare a una sovrastima delle graminacee (Holechek e coll. 1982a; McInnis e coll. 1983), anche se altri autori suggeriscono che si tratta di errori minimi (Dearden e coll. 1975; Norbury, 1988b).
Malgrado il loro uso assai diffuso, sia la separazione manuale che il metodo microscopico sono soggetti ad un certo numero di svantaggi.
Entrambi i metodi sono molto tediosi ed è richiesta una notevole preparazione degli operatori. Anche con operatori ben addestrati, una porzione variabile di frammenti vegetali rimane non identificata.
Benché siano state ideate procedure per la correzione della stima per i frammenti non identificati (Dearden e coll. 1975; Norbury 1988a, 1988b), più la frazione di tali particelle è grande meno il metodo diventa affidabile.
Inoltre la stessa tecnica di preparazione dei campioni per l'esame può danneggiare o anche distruggere alcuni frammenti di epidermide vegetale (Griffiths e coll. 1974; Sparks e Malechek, 1968).
Problemi possono incorrere anche nella trasposizione dei dati microscopici a valori numerici di proporzioni nella dieta, espressi su base gravimetrica (Salt e coll., 1994).

Diversi metodi chimici sono stati proposti come alternativa alle tecniche sopra descritte per la determinazione della composizione della dieta. Per esempio, il pinitolo (1-D-3-o-inositolo) che è presente nelle leguminose ma non nelle graminacee (Smith, 1982); questo composto ha però il grave svantaggio di essere idrosolubile e quindi di andare perso durante la masticazione (Forwood e coll., 1987).
Nei bovini al pascolo si è usato anche il contenuto di calcio dei campioni ottenuti tramite fistola per ottenere indicazioni grossolane sulla percentuale di leguminose nella dieta (Playne e coll., 1978).
Allo stesso modo, la differenza naturale nel contenuto in 13carbonio tra piante con fotosintesi di tipo C3 o C4 è stata usata per la valutazione della proporzione tra graminacee e leguminose nella dieta (Coates e coll., 1993; Jones e coll., 1979); questo tipo di approccio non può però essere usato nei climi temperati, dove tutte le specie vegetali utilizzano la via fotosintetica C3.
Inoltre, né il calcio né gli isotopi del carbonio permettono di arrivare ad una discriminazione a livello di specie.

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3.3.1. Utilizzo degli alcani delle cere vegetali per la valutazione della composizione della dieta
Sin dai primi studi tassonomici i ricercatori hanno riscontrato differenze anche notevoli tra le concentrazioni in alcani delle specie vegetali (Dove e Mayes, 1991; Tulloch, 1976).
Il principio dell'utilizzo degli alcani per valutare la composizione della dieta è lo stesso impiegato per tutti gli altri metodi chimici: la composizione di un determinato campione di feci o di materiale prelevato attraverso una fistola viene determinata analizzando la concentrazione dei marker presenti nel campione globale e nei diversi componenti (prelevati individualmente) che formano quella miscela.
Il massimo numero di elementi che può essere discriminato nella miscela è teoricamente limitato al numero di marker disponibili (di norma da 8 a 15 per gli alcani).
Le componenti della dieta da separare possono essere specie vegetali o cultivar, parti di piante o anche intere comunità vegetali.
Gli alcani possono essere usati per determinare la composizione della dieta dal materiale prelevato sia tramite fistole (Dove e coll., 1993) che da campioni di feci (Armstrong e coll., 1993; Dove e coll., 1993; Hulbert, 1993; Mayes e coll., 1994; Salt e coll., 1994).
Per risolvere da un punto di vista matematico questi problemi, Dove (1992) ha impiegato serie di equazioni simultanee.
Per ottenere soluzioni uniche il numero delle equazioni e degli alcani doveva essere uguale al numero delle specie presenti nella dieta.
Alcuni lavori hanno dimostrato che nel caso gli alcani disponibili siano in numero maggiore rispetto alle piante, e che quindi risultino possibili diverse serie di equazioni simultanee, è necessario prendere una decisione accurata sugli alcani da impiegare; viceversa si potrebbero verificare errori nella stima della composizione (Dove e Moore, 1995; Newman e coll., 1995).

Per ottenere un'unica soluzione anche impiegando tutti gli alcani disponibili, sono stati sviluppati in seguito metodi di ottimizzazione con il sistema dei minimi quadrati (Armstrong e coll., 1993; Dove e coll., 1993; Dove e Moore, 1995; Mayes e coll., 1994, 1995b; Newman e coll., 1995; Salt e coll., 1994).
Queste procedure minimizzano le deviazioni quadratiche tra la composizione botanica osservata e quella prevista dal modello.
Le soluzioni ottenute con questo tipo di approccio sono sovrapponibili a quelle ottenute con equazioni simultanee.
Quando si usano gli alcani per valutare la composizione botanica della dieta potrebbero essere necessarie delle correzioni per l'incompleto recupero fecale.
Nei ruminanti il recupero fecale degli alcani aumenta con la lunghezza della catena carboniosa (Dove e Mayes, 1991) per cui, senza adeguate correzioni, si otterrebbe una sovrastima dei componenti la dieta caratterizzati da un maggiore contenuto di alcani a lunga catena.
Di solito i valori di recupero fecale che si utilizzano, anche nel caso di animali al pascolo, sono relativi ad animali mantenuti in stabulazione.
Gli eventuali errori legati alla variabilità individuale degli animali sono relativamente poco importanti, perché sono le proporzioni tra singoli alcani ad esercitare l'effetto maggiore.

In alternativa, agli animali al pascolo si possono somministrare miscele di alcani sintetici a catena pari (C24, C28, C32, C36), di cui si può ottenere il valore di recupero fecale mediante raccolta totale delle feci (Mayes e coll., 1995b); i bassi livelli di queste catene pari nelle specie vegetali determinano solo piccoli errori nel calcolo del recupero fecale.
Le percentuali di recupero degli alcani a catena dispari (cioè quelli presenti nelle piante) si possono quindi poi valutare per interpolazione.
Dove (1992) ha pubblicato una serie di prove tese a validare la tecnica degli alcani come procedura idonea a discriminare la composizione botanica della dieta.
Naturalmente, questo è molto più facile e diretto da verificare in animali in stabulazione piuttosto che in animali al pascolo.
I risultati mostrano che, per ottenere la stima più accurata, la correzione relativa al recupero fecale dovrebbe essere effettuata a partire da dati individuali, piuttosto che utilizzare fattori di correzione standard.
Il recupero fecale di ogni singolo alcano, per ciascun animale, è lo stesso a prescindere dalla specie vegetale che si considera. Altre conferme di queste asserzioni possono essere ritrovate nei lavori condotti su pecore da Mayes e coll. (1995b), che hanno esaminato pascoli a base di Juncus effusus e Lolium, oppure da Fulford (1994) che ha utilizzato questa tecnica con capre alimentate con insilato d'erba e fieno di graminacee.
Merchant (1996) ha invece valutato, sempre in capre, l'ingestione di Juncus effusus quale specie infestante in pascoli misti.
La tecnica degli alcani è stata maggiormente impiegata nelle situazioni in cui la dieta consisteva di poche specie vegetali, normalmente da 2 a 4 (Armstrong e coll., 1993; Salt e coll., 1994; Dove, 1992). Teoricamente non ci sono ragioni per le quali il metodo non dovrebbe essere in grado di distinguere con sufficiente approssimazione un numero maggiore di specie (10-15), ma è verosimile che la sua affidabilità decresca con l'aumentare del numero dei componenti.
Questo è dovuto al fatto che, aumentando il numero di specie, aumenta anche la possibilità che esista una combinazione di due o più componenti che esibiscono un modello di alcani simile a quello di un'altra.

Malgrado ciò studi fatti in campo con caprini e ovini indicano che le prospettive dovrebbero essere incoraggianti. Per esempio, Mayes e coll. (1994) hanno usato la tecnica degli alcani per valutare la composizione della dieta di capre in lattazione al pascolo in un'area forestale a sud della Norvegia, che era stata esposta al fallout di radiocesio derivante dall'incidente nucleare di Chernobyl.
L'obiettivo dello studio era quello di valutare l'ingestione di radiocesio a partire dalle concentrazioni vegetali di questo elemento radioattivo e dalla composizione della dieta.
I dati hanno indicato una netta dominanza di salice e betulla nella dieta malgrado la grande disponibilità di graminacee.
Questi risultati sono stati parzialmente convalidati da stime ottenute negli anni precedenti mediante animali fistolati all'esofago; inoltre, i livelli di radiocesio misurati nel latte delle capre sono risultati compatibili con i livelli attesi a partire dai calcoli basati sulla composizione della dieta.

Un'altra considerazione degna di nota è che all'interno della singola specie vegetale ci possono essere differenze significative nella concentrazione di alcani delle diverse parti anatomiche della pianta (Baker e Klein, 1994; Dove e coll., 1992, 1996; Laredo e coll., 1991).
Questo potrebbe essere una fonte di errore nella valutazione qualora i campioni di pascolo raccolti per l'analisi differissero, in termini di parti della pianta, dal campione effettivamente prelevato dagli animali.
Dove e Mayes (1991) hanno suggerito che tali differenze potrebbero anche essere sfruttate per valutare le proporzioni di queste parti anatomiche nell'ambito della dieta, come foglie o steli.
Dove e coll. (1992), per esempio, hanno riportato differenze significative nella concentrazione in alcani di lamina fogliare, guaina fogliare, stelo e fiori di Lolium rigidum.
In ecosistemi complessi come foreste o pascoli molto estesi, ci potrebbero essere più specie di piante disponibili per gli animali che alcani analizzabili, senza considerare poi le differenze esistenti tra parti delle singole piante.
Salt e coll. (1994) hanno affrontato il problema combinando l'approccio microscopico con quello della tecnica degli alcani: in una prova dove veniva richiesto di determinare sia l'ingestione che la composizione della dieta in ovini al pascolo in due diverse comunità vegetali (pascoli a Deschampsia flexuosa e arbusteti a Calluna vulgaris), gli alcani sono stati utilizzati per stimare la sostanza secca ingerita e le proporzioni di questa legate all'una o all'altra comunità vegetale, mentre con la tecnica microscopica si è passato al riconoscimento delle specie vegetali.

Probabilmente in futuro gli sviluppi di questa tecnica saranno legati alla possibilità di estendere il numero dei possibili marcatori anche ad altre sostanze naturalmente presenti nelle piante.
Queste potrebbero essere ad esempio marker rintracciabili nelle urine, come i composti fenolici (Mayes e coll., 1995a), oppure altri componenti delle cere vegetali.
Le cere contengono infatti un largo range di composti, in aggiunta agli alcani, e questi potrebbero giocare un ruolo non trascurabile nella stima della composizione della dieta (Dove e Mayes, 1991).
Alcuni idrocarburi insaturi (alcheni), per esempio, sono presenti in molte specie e sembrano particolarmente caratteristici della cera cuticolare delle parti floreali (Dove e coll., 1992; Fulford, 1994; Tulloch, 1976).
Malgrado gli alcheni abbiano valori di recupero fecali più bassi rispetto agli alcani, dovuti alla idrogenazione nel rumine (Fulford, 1994), Dove e coll. (1992) sono riusciti ad utilizzare una combinazione di alcani e alcheni per valutare il consumo di parti diverse di vegetali da parte di pecore al pascolo.
Inoltre, molte cere cuticolari contengono maggiori quantità di esteri (acidi grassi a lunga catena della serie C19 - C32, alcoli a lunga catena) che idrocarburi, mentre molte graminacee povere in alcoli spesso contengono alte percentuali di b-dichetoni (Tulloch e coll., 1980).
Tutti questi composti potrebbero essere utili come marker fecali per una valutazione della dieta, ma la ricerca in questo ambito deve ancora essere approfondita.

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3.3.2. Uso degli alcani per la valutazione dell'ingestione e della composizione della dieta in erbivori
non ruminanti e in animali selvatici

Le tecniche descritte e discusse in dettaglio in questo capitolo sono state sviluppate principalmente su ruminanti domestici.
Spesso comunque può essere necessario valutare l'ingestione e/o la composizione della dieta in erbivori non ruminanti e in animali selvatici.
I metodi per valutare l'ingestione nei monogastrici sono state relativamente poco sviluppate. Per esempio, la tecnica che prevede l'impiego combinato della digeribilità in vitro e del Cr2O3 non è stata usata con la stessa frequenza che nei ruminanti, perché le tecniche di digestione in vitro non sono ancora state adeguatamente perfezionate.
Comunque, non vi sono motivi, almeno in teoria, perché la tecnica degli alcani non possa essere usata nei monogastrici. Ad oggi sono stati infatti pubblicati alcuni studi effettuati sia con suini che con cavalli (Stefanon e coll., 1999).
In una ricerca condotta su cavalli è stata effettuata la raccolta totale delle feci in quattro purosangue adulti in stabulazione e alimentati con fieno di graminacee pellettato; agli stessi cavalli venivano somministrati due volte al giorno alcani sintetici a catena pari (C28, C32 e C36) adsorbiti su carta (Cuddeford e Mayes, citati da Dove e Mayes, 1996).
In un secondo studio, scrofe gravide Large White hanno ricevuto razioni costituite da varie miscele di erba disidratata e pellettata e cereali (Gannon e Mayes, citati da Dove e Mayes, 1996).
La somministrazione di alcani a catena pari e la raccolta delle feci è stata gestita analogamente a quanto descritto per i cavalli.
Il livello di ingestione stimato mediante l'analisi della coppia di alcani C32 e C33 ha mostrato sia nei cavalli che nei suini una buona corrispondenza con quanto realmente misurato.
Un punto degno di nota, emerso dagli studi effettuati sui monogastrici, è che il tasso di recupero fecale degli alcani - sia quelli somministrati che quelli naturali - benché incompleto, non è influenzato dalla lunghezza della catena come invece accade nei ruminanti.
Questo implica non solo che non c'è bisogno di usare una coppia di alcani adiacenti (catena pari-catena dispari) per stimare il livello di ingestione, ma anche che non è necessaria alcuna correzione per il recupero fecale nei calcoli relativi alla stima della composizione botanica della dieta.

Il problema principale nell'impiego di queste tecniche negli erbivori selvatici è la difficoltà di avvicinarsi ad essi per la somministrazione del indicatore e quella di ottenere campioni rappresentativi della dieta e del materiale fecale.
È vero che è possibile raccogliere le feci dal terreno, ma la somministrazione del marker non può essere evitata.
La manipolazione degli animali potrebbe essere ridotta al minimo utilizzando il dispositivo intraruminale "CRD" già descritto, ideato per liberare dosi costanti giornaliere di alcani sintetici.
Se le feci di questi animali sono raccolte dal terreno, quindi, la manipolazione potrebbe essere limitata soltanto alla somministrazione del CRD.
Il dispositivo potrebbe, inoltre, contenere una miscela di alcani diversa per ogni animale, in maniera tale da poter anche identificare le feci di ciascun individuo.

Gedir e Hudson (2000) hanno sperimentato la tecnica degli n-alcani tramite CRD in femmine di wapiti (Cervus elaphus canadensis) cui veniva somministrata erba medica pellettata.
Gli autori hanno riscontrato che la stima della SS ingerita era più accurata utilizzando la coppia di alcani C33/C32 rispetto alla coppia C31/C32, anche se il livello di precisione (determinato mediante l'esame della variabilità inclusa nel modello di previsione) risultava maggiore nella coppia C31/C32.
Il livello di ingestione non ha influenzato il tasso di escrezione dell'indicatore, la digeribilità dell'alimento (stimata pari al 63% mediante l'uso del C36) e nemmeno il tasso di recupero fecale degli alcani.

Hulbert (1993) ha usato questo metodo per valutare la composizione della dieta in lepri selvatiche (Lepus timidus) delle Highlands scozzesi.
Gli animali catturati sono stati mantenuti in gabbie durante la notte per permettere la raccolta di campioni fecali; successivamente gli animali sono stati dotati di dispositivi trasmittenti per radio-tracking e rilasciati.
Questi dispositivi hanno permesso di monitorare i movimenti degli animali e quindi di conoscere le comunità vegetali scelte per l'alimentazione.
Le specie vegetali all'interno di ogni comunità sono state campionate e analizzate per il contenuto in alcani; la composizione della dieta è stata quindi valutata utilizzando la tecnica dei minimi quadrati (Mayes e coll., 1995b), senza fare correzioni per il recupero fecale degli alcani nelle feci.
Lo stesso autore ha riportato che, come nei cavalli e nei suini, il recupero fecale degli alcani nelle lepri non differisce a seconda della lunghezza della catena.
I risultati hanno mostrato che nel periodo invernale Calluna vulgaris è stata la specie maggiormente consumata, mentre nel periodo primaverile-estivo la specie predominante è stata Deschampsia flexuosa; durante tutto l'anno la dieta ha contenuto, inoltre, una proporzione di Deschampsia flexuosa maggiore di quella presente nella biomassa vegetale disponibile.

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