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Numero 3/4 - maggio 2001
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Dr. M. Naceur Haouet
<n.haouet@pg.izs.it>

RUOLO DELLE FARINE ANIMALI



L’inquietante aumento dei casi in Europa sia della BSE che della nuova variante della malattia di Creutzfeldt-Jacob ha reso recentemente (da circa novembre 2000) necessaria una notevole intensificazione dei controlli a livello comunitario, tale da essere in una vera e propria situazione d’emergenza.

Essendo stato dimostrato che la propagazione avviene per via alimentare, attraverso l’ingestione di materiale infetto, il divieto d’utilizzo delle farine animali e il controllo dei mangimi per il bestiame assumono un’importanza fondamentale come metodo di prevenzione.

Dalla scoperta, nel 1986 della BSE, si è avuto, prima nel Regno Unito, poi nella Comunità Europea e a livello nazionale una rapida successione di normative, con continue modifiche spesso contraddittorie e tali da poterle definire una vera e propria "odissea".


Il primo divieto avviene nel 1994 (in seguito a quello del 1988 in Gran Bretagna, il cosiddetto "the ruminant feed ban") con l’Ordinanza Ministeriale del 28 luglio 1994 ("Misure di protezione per quanto riguarda l’encefalopatia spongiforme bovina e la somministrazione, con la dieta, di proteine derivate da mammiferi" a recepimento della Decisione della Commissione 94/381/CE).

Veniva in pratica "vietata la somministrazione ai ruminanti di mangimi contenenti proteine derivate da mammiferi" (articolo 1).

Va notato che il divieto riguarda esclusivamente i ruminanti e le sole proteine derivate da mammiferi; l’articolo 2, inoltre, dava la possibilità, in deroga, di somministrare " mangimi contenenti proteine appartenenti a specie diverse dai ruminanti", "a condizione che nella fase di produzione e commercializzazione possa essere assicurato che detti alimenti non provengono da tessuti di ruminanti".

La prima modifica sostanziale avviene a distanza di tre anni con l’Ordinanza Ministeriale del 20 aprile 1997 con la quale il divieto di somministrazione ai ruminanti viene esteso a tutte le farine animali (contenente sia proteine di mammifero sia di volatile che di pesce): "E’ vietata la somministrazione ai ruminanti di mangimi contenenti proteine derivate da tessuti animali". Il divieto riguarda ancora esclusivamente i ruminanti.

Ordinanza Ministeriale 16 luglio 1999: "È vietata la somministrazione ai ruminanti di mangimi contenenti proteine derivate da tessuti di mammiferi". Si torna in pratica indietro di 5 anni, al divieto imposto nel 1994, senza tuttavia alcuna possibilità di deroga.

Ciò va in contrasto con quanto rivelato sia dalle ricerche sperimentali che dalla situazione epidemiologica nella popolazione bovina non solo inglese ma anche comunitaria.

Già nel 1988, sono stati dimostrati in Gran Bretagna la propagazione per via alimentare e il salto della barriera di specie, attraverso la riproduzione della malattia sia per via intracerebrale che alimentare in gruppi di pecore suscettibili alla scrapie, di ovini e di capre resistenti.

Nel 1990, è stata dimostrava la trasmissione della BSE al suino, attraverso un’inoculazione per via intracerebrale. Nello stesso anno, veniva a morte un cane di razza siamese con una encefalopatia spongiforme del tutto simile alla BSE.

Nel 1994 (sebbene la conferma istologica si ebbe solo nel 1996), erano già evidenti i risultati di una ricerca iniziata nel 1989 che dimostrava che la dose d’attacco è inferiore ad un grammo di omogenato di cervello di animale infetto da BSE, somministrato per via alimentare a bovini, con un tempo di incubazione variabile tra i 42 e i 71 mesi.

Nel 1998, sono stati pubblicati i risultati di una ricerca che mostrava l’alta incidenza di cross contaminazione nei mangimi per ruminanti, fenomeno sospettato già nel 1991 e nel 1996.
Senza considerare che l’aumento dei casi umani della nuova variante della malattia di Creutzfeldt-Jacob, scoperta nel 1996, ha portato a situazioni di allarmismo notevole.

Un anno più tardi, si verifica (in situazione d’emergenza) una modifica importante con l’Ordinanza Ministeriale del 17 novembre 2000, in cui il divieto di somministrazione viene di nuovo esteso a tutte le farine animali e non solo ai ruminanti ma a tutti gli erbivori ("È vietata la somministrazione agli erbivori di mangimi contenenti proteine derivate da tessuti animali"). Quindi, non sono più interessati i soli ruminanti ma anche gli equini e i conigli; rimangono in pratica "fuori" suini, pollame e pesci.

Non per ultimo, l’Ordinanza Ministeriale viene sovrastata dal 01.01.2001 fino al 30.06.2001, salvo estensione del periodo, dalla Decisione del Consiglio 2000/766/CE e dalla Decisione della Commissione del 29 dicembre 2000: è vietata la somministrazione di proteine animali trasformate a tutti gli animali allevati per la produzione di alimenti, ad eccezione di farina di pesce, proteine idrolizzate, fosfato dicalcico, latte e prodotti lattieri, utilizzabili solo nei "non ruminanti", previa autorizzazione delle ASL o delle Regioni. La Decisione della Commissione recita testualmente: Il divieto ai ruminanti riguarda anche il fosfato dicalcico e le proteine idrolizzate perché il primo viene prodotto da ossa sgrassate e le seconde da pelli di animali macellati.

Negli allegati, vengono riportate le condizioni di produzione, trasporto, stoccaggio e commercializzazione delle farine di pesce, del fosfato dicalcico e delle proteine idrolizzate. In breve, i provvedimenti sono finalizzati ad evitare fenomeni di cross-contaminazione: le sostanze devono essere prodotte in stabilimenti di trasformazione esclusivi; devono essere trasportate ai mangimifici mediante mezzi esclusivi, oppure i mezzi di trasporto devono essere sempre accuratamente puliti ed ispezionati; i mangimi contenti tale sostanze devono essere fabbricati esclusivamente in stabilimenti che producono alimenti per specie diverse dai ruminanti, oppure, in deroga, trasporto, stoccaggio, condizionamento e strutture devono essere completamente separati; gli alimenti integrati devono riportare l’etichetta indicando "contiene … (farina di pesce, fosfato dicalcico o proteine idrolizzate) – non somministrare ai ruminanti".

Inoltre, fosfato dicalcico e proteine idrolizzate devono provenire da carcasse riconosciute adatte al consumo umano e le proteine idrolizzate devono aver subito un trattamento tale da conferirgli un peso molecolare inferiore a 10.000 dalton.
Infine la Decisione della Commissione CEE N. 165 del 27.02.2001 impone che la produzione di pet-food deve avvenire in stabilimenti completamente separati.

Va notato che i divieti sono diretti alla sola somministrazione di farine animali e non alla loro produzione.

I controlli a livello sanitario sono cominciati solo nel 1997 in quanto la metodica d’analisi adottata prima a livello nazionale, poi comunitario, è stata trasferita dalla Repressione Frodi (attualmente Ispettorato Centrale Repressione Frodi) agli Istituti Zooprofilattici Sperimentali e all’Istituto Superiore di Sanità e validata mediante un circuito interlaboratoriale nel 1996.

I dati riportati di seguito si riferiscono ai controlli sia ufficiali che privati effettuati nelle Regioni Umbria e Marche. Vengono riportati per anno i numeri di campioni analizzati, sia totali (privati che controllavano le proprie produzioni e prelievi ufficiali) che ufficiali, con i relativi numeri e percentuale di positività.


Figura 2: Campioni analizzati nel 1997, numero e percentuale di positivi


Si può osservare dalla figura che il numero di campioni ufficiali nel 1997 era pari a 56 con un 12,5% di positività, mentre la percentuale del totale dei mangimi analizzati (111) era pari a 21,6.

La percentuale di positività era decisamente elevata se si considera oltretutto che il divieto di somministrazione di farine animali era imposto dal 1994. Si vedrà di seguito che la percentuale di positività andrà a calare negli anni successivi all’inizio dei controlli ufficiali, a denotare un’attenzione maggiore da parte dei mangimifici e degli allevatori.

Va ricordato che il divieto era ed è tuttora diretto alla somministrazione di farine animali e non alla loro produzione.

Inoltre, fino ad aprile 1997, era vietata (secondo l’O.M. 14 aprile 1994) la somministrazione ai ruminanti di mangimi contenenti proteine di mammiferi mentre da quella data in poi il divieto è stato esteso a tutte le farine animali (mammiferi, volatile e pesce). In altre parole un mangime per ruminanti, integrato con farina di pollame o di pesce, prodotto e commercializzato ad aprile 1997 era regolare, mentre non lo era più a maggio dello stesso anno.


Figura 3: Campioni analizzati nel 1998, numero e percentuale di positivi


E’ subito evidente: Il notevole calo dei controlli mostra senza dubbio una caduta dell’interesse sia a livello sanitario che privato, calo che si protrarrà, come vedremo, fino all’emergenza cominciata nel novembre 2000.


Figura 4: Campioni analizzati nel 1999, numero e percentuale di positivi.


A distanza di due anni dall’inizio dei controlli, siamo passati ad una riduzione superiore al 55 % delle verifiche a livello sanitario (25 prelievi ufficiali nel 1999 contro i 56 del 1997) e al 63 % in totale, mentre la percentuale di positività rimane fondamentalmente costante rispetto al 1998 (7-8 %).

Ricordiamo che al pari del 1997, il 1999 fa segnare un periodo di transizione in quanto si passa ad agosto ad una legislazione di nuovo più permissiva, con un divieto di somministrazione ai ruminanti di farine animali di soli mammiferi.


Figura 5: Campioni analizzati nel 2000, numero e percentuale di positivi.


Il calo dei controlli ufficiali raggiunge quasi il 95 % nel 2000, se si considera che fino alla situazione d’emergenza, cioè fino a novembre 2000, i campioni prelevati dagli organi competenti erano solo 3.
In pratica, 145 campioni ufficiali sono stati prelevati ed analizzati, nel 2000, in meno di un mese e mezzo.
La situazione d’allarme si è protratta durante il 2001 (figure 6, 7 e 7 bis): in circa un mese, cioè fino al 5 febbraio, sono stati analizzati 215 campioni e al momento attuale poco meno di 600 effettuati quasi tutti durante i primi 3 mesi.

Si può tranquillamente presumere che, durante questa situazione d’emergenza, la quasi totalità dei campioni sono ufficiali.


Figura 6: Campioni analizzati al 05.02.2000; numero e % di positivi.


Figura 7: Campioni analizzati tra il 1997 e il 2001.


Figura 7 bis.


Figura 8: Andamento della positività dal 1997 al 2001.


C’è stata molta preoccupazione a livello sanitario, centrale e regionale, e a livello del laboratorio di revisione delle analisi per l’elevato numero di campioni positivi, non solo in Umbria e Marche ma in tutta Italia. Dai nostri dati, si evince in realtà che non si è verificato nessun aumento di positività, ma anzi una diminuzione passando dal 7-8% del 1998-'99 a poco più del 5% (figura 8), verificatesi dall’inizio dell’anno al 5 febbraio e confermato fino al momento attuale. L’elevato numero di campioni positivi è in effetti dovuto all’elevatissimo numero di campioni prelevati dagli organi ufficiali ed analizzati nei nostri laboratori.

La metodica ufficiale di analisi delle proteine animali, adottata a livello nazionale (Decreto Ministero delle Politiche Agricole e Forestali del 13 aprile 1994 modificato dal Decreto 30 settembre 1999) e comunitario (Direttiva 98/88/CE della Commissione del 13 novembre 1998), si basa essenzialmente sull’identificazione microscopica dei frammenti ossei e sul riconoscimento della classe di appartenenza (mammifero, volatile, pesce).

I frammenti ossei infatti si ritrovano inevitabilmente nelle farine animali più usate e prodotte (farina di carne, farina di carne e ossa, farina di ossa, farina di pesce, etc.) e non possono sfuggire all’occhio attento e vigile di un analista esperto dotato di una certa esperienza.

Va ricordato che la metodica microscopica vanta una sensibilità inferiore allo 0,1%.
Tale metodica nata a scopo merceologico e messa a punto dall’Ispettorato Centrale Repressione Frodi (Decreto Ministero delle Politiche Agricole e Forestali del 13 aprile 1994) è stata, con l’avvento delle TSE, estesa a livello sanitario per il controllo igienico-sanitario degli alimenti ad uso zootecnico.

L’adozione della metodica a livello sanitario è avvenuta nel 1996 in Italia attraverso la formazione di personale appartenente a tutti gli Istituti Zooprofilattici Sperimentali e all’Istituto Superiore di Sanità e la sua validazione mediante un circuito interlaboratoriale tra gli stessi Istituti.

La metodica prevede in sintesi un trattamento del campione in esame con solvente e la conseguente precipitazione dei costituenti inorganici (tra cui le particelle ossee); segue l’osservazione allo stereomicroscopio della conformazione fisico-morfologica dei frammenti più grossolani (superiori a 5 mm) e, dall’altra, l’esame al microscopio ottico della struttura istologica delle particelle più fini. La diagnosi finale si basa comunque sull’osservazione al microscopio ottico attraverso il riconoscimento dei frammenti ossei e l’identificazione della classe animale di appartenenza.

Le ossa di mammifero (figura 9) appaiono come particelle opache o semi- trasparenti, di forma rotondeggiante, nella maggior parte delle quali sono visibili lacune rotonde o leggermente ellittiche, di 10-15 mm di diametro, che appaiono nere sul fondo grigio delle lamine ossee; nei frammenti più sottili, sono visibili i canalicoli, in forma di leggere linee nere non ramificate che partono dalle lacune dirigendosi in tutte le direzioni;


Figura 9: Frammento osseo di mammifero.


Le ossa dei volatili (figura 10) si differenziano da quelle dei mammiferi per le particelle ossee allungate, con bordi sfrangiati e con lacune oblunghe ed appiattite, particolarmente numerose, di dimensione pari a circa 5 x 10 mm.


Figura 10: Frammento osseo di volatile.


Le ossa dei pesci (figura 11) si presentano come particelle di colore generalmente giallo paglierino, di forma prevalentemente allungata, talvolta cilindrica, con bordi netti, a differenza dei frammenti di volatile. In alcuni gruppi, le lacune ossee sono fusiformi, mentre in altri sono filiformi, di dimensione variabile da 1-3 x 10-30 µm. A differenza dei mammiferi e dei volatili, i canalicoli sono ramificati. In altri gruppi, ancora, le lacune sono assenti e nelle particelle ossee sono visibili solo leggere striature parallele ramificate, corrispondenti alle fibre di Sharpey.


Figura 11: Frammenti ossei di pesce.


La successiva modifica della metodica con il Decreto del 30 settembre 1999 ha generato a livello nazionale non poche perplessità e confusione a livello nazionale in quanto ha posto un accento particolare sulla possibile "stima" quantitativa delle farine animali eventualmente presenti nei mangimi. La revisione del metodo, a cura sempre dell’Ispettorato Centrale Repressione Frodi, è stata effettuata allo scopo di uniformare l’analisi a livello nazionale e consentire una stima quantitativa più semplice da eseguire per il controllo merceologico dei prodotti (controllo del cartellino).

Anche il DM 13 aprile 1994 permetteva una certa quantificazione dei frammenti ossei eventualmente presenti; essa veniva effettuata, dall’intero sedimento, attraverso l’isolamento allo stereomicroscopio dei frammenti ossei più grossolani e il loro successivo peso.

Il Decreto del 30 settembre 1999 prevede invece una conta, attraverso il microscopio ottico, del numero relativo dei frammenti in tre preparati microscopici, su cinque campi per ognuno, e la successiva conversione percentuale in farine animali (figura 12).


Figura 12: Formula per la stima quantitativa dei costituenti di origine animale.


Come si può osservare dalla figura, tale calcolo non permette una stima precisa e reale ma potrebbe al limite offrire un’idea sulla presenza quantitativa delle farine animali a scopo merceologico (sapendo dal cartellino la farina eventualmente integrata); questa quantificazione inoltre indica, anche se non in modo esplicito, la possibilità di una tolleranza.

Tale problema è stato tuttavia chiarito dal protocollo d’intesa tra Ministro della Sanità e Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, prot. N. 577 del 21 febbraio 2001, che detta espressioni del risultato di tipo qualitativo (presenza, assenza) e non permette nessuna tolleranza (un solo frammento cioè porta alla positività del campione).

La positività di un mangime tuttavia non era e non è per forza legata alla sua integrazione con farine animali. Si è già accennato infatti all’esistenza di una possibile cross contaminazione a livello soprattutto delle aziende di trasformazione.

La grande maggioranza dei mangimifici, nel nostro paese, sono di piccola-media entità. Va ricordato che la maggioranza dei produttori utilizza lo stesso impianto per l’allestimento di mangimi destinati a specie animali differenti. Ciò comporta un alto rischio di inquinamento dei prodotti ottenuti con le miscelazioni successive a quelle impiegate per la preparazione di mangimi contenenti farine animali.

Avendo il sospetto di tale fenomeno, abbiamo pertanto approntato una ricerca nel 1998 in cui sono stati analizzati complessivamente 180 campioni di mangime.
In un primo momento, sono stati esaminati 90 campioni di mangime per bovini, posti in commercio tra il 1997 e il 1998. Successivamente, sono state realizzate due serie di prove in tre mangimifici.

Nella prima serie, sono stati allestiti sei mangimi contenenti farine animali (FA) al 3,5% (tre con carne e tre con pesce); per ognuno sono stati effettuati 10 cicli di ripulitura dell’impianto, prima della produzione di un alimento non contenente farine animali.

Nella seconda serie, sono stati prodotti quattro mangimi integrati con FA (due con carne e due con pesce, al 3,5%) e quindi quattro privi di tale integrazione, dopo il normale ciclo di ripulitura adottato dal mangimificio. Per ciclo di ripulitura si intende il passaggio nell’impianto di produzione di un alimento privo di farine animali destinato a non ruminanti.

Dopo ogni operazione, campioni di mangime e del materiale rimasto aderente alle pareti del miscelatore sono stati sottoposti ad analisi. I risultati sono stati espressi come "negativo" (assenza di frammenti ossei), "debolmente positivo" (ritrovamento di 1-3 frammenti) e "positivo" (presenza di oltre 3 frammenti).

I risultati di tale ricerca sono riportati nelle figure seguenti.


Figura 13: Risultati dei 90 mangimi prelevati in commercio.


Figura 14: Positività (%) del mangime iniziale, del mangime finale e del materiale rimasto aderente alle pareti del miscelatore dopo i 10 cicli di ripulitura.


Figura 15: Positività (%) del mangime iniziale, del mangime finale e del materiale rimasto aderente alle pareti del miscelatore dopo il normale ciclo di ripulitura.


Figura 16: Positività (%) dei campioni dopo i cicli di ripulitura.


Si intuisce da tali risultati che è necessario effettuare non meno di otto cicli di ripulitura per ottenere un prodotto privo di farine animali, o comunque una fase di pulizia accurata del miscelatore, dei silos di raccolta, delle coclee e degli elevatori, trattamenti questi non facilmente eseguibili di routine pena la "morte" dello stabilimento.

Altro problema, infine, è quello legato alla metodica attualmente utilizzata per la rilevazione delle farine animali.
Infatti, la metodica ufficiale, pur essendo estremamente precisa e sensibile, possiede diversi limiti, senza considerare il tempo di osservazione microscopica, soprattutto per un operatore poco esperto, e l’elevata tossicità dei solventi impiegati per l’estrazione:
Figura 17: Frammenti di gallina, tacchino e bovino.


Anche per tali motivi sono nati, a livello ancora sperimentale, diverse metodiche alternative: La PCR sembra comunque in grado di affiancare o sostituire la metodica microscopica.
La legislazione vigente, inoltre, ha ulteriormente accentuato i limiti legati alla metodica ufficiale; è ovvio che non tutte le farine animali possono essere svelate da tale metodica; in particolare, le proteine idrolizzate e il fosfato dicalcico, permessi dalla Decisione CE 766 del 4 dicembre 2000, negli alimenti destinati ad animali diversi dai ruminanti, risultano comunque assenti, anche se sono presenti.

Per molte delle farine animali, l’unica possibilità analitica sembra attualmente l’uso della PCR; è in particolare il caso delle farine di sangue, delle farine di frattaglie di pollame, del plasma essiccato e di altri emoderivati.

Rimane da chiarire la metodica di analisi per le proteine idrolizzate, la gelatina e il fosfato dicalcico, per le quali i metodi sopra elencati risultano inefficaci.

Per le prime due (proteine idrolizzate e gelatina), la soluzione sembra essere la separazione cromatografica e la successiva rivelazione attraverso l’uso del HPLC.

Per il fosfato dicalcico, infine, la metodica attualmente consigliata per differenziarlo da quello di origine minerale è l’analisi della composizione minerale ed eventualmente dei fluoruri e del ferro, elementi sempre presenti in quantità variabile nei fosfati di origine minerale.


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