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Numero 5/6 - giugno/luglio 2001
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Telemaco Cenci
Dott. Telemaco Cenci
<t.cenci@pg.izs.it>
Naceur Haouet
Dott. M. Naceur Haouet
<n.haouet@pg.izs.it>

Farine animali e BSE: Valutazione del rischio per il consumatore di carne

Animal meal and BSE: Risk assessment for meat consumer
T. Cenci & M. N. Haouet



Abstract

This paper reviews first the experimental studies undertaken by U. K. researchers on the attack rate and on the period of incubation of BSE in cattle. The Italian and European Community regulations on animal meal uses in feed, adopted as a preventive measure to avoid the spread of TSE, the methods used for the detection of animal meals in feed, the animal meal process rendering and the cross contamination phenomenon are afterwards analysed. In conclusion, risk analysis and hazard expression for bovine meat consumers are discussed.


Riassunto

Vengono dapprima riportate le sperimentazioni effettuate dai ricercatori britannici sulla dose minima infettante e sul periodo di incubazione della BSE. Si passano poi in rassegna le norme attuative, comunitarie e nazionali, relative all’impiego delle farine animali nei mangimi per il contenimento delle TSE (Trasmissible Spongiform Encephalophaty). Vengono descritte le metodiche di laboratorio per la ricerca delle proteine animali nei mangimi. Sono successivamente affrontati e analizzati il process rendering per le farine animali ed il fenomeno della cross-contamination a livello di produzione di mangime. Sono infine discussi, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, l’analisi del rischio e gli eventi utili a determinare la manifestazione del pericolo TSE per il consumatore di carne bovina.


Introduzione

La comparsa di una encefalopatia trasmissibile nella specie bovina, che in gran parte del mondo rappresenta per l’uomo la più importante fonte di alimenti di origine animale, è stata sin dall’inizio motivo di preoccupazione. Tuttavia solo nel 1996, con la descrizione, nel Regno Unito, dei primi 10 casi di una nuova TSE umana, verosimilmente legata all’epidemia di BSE e denominata "nuova variante della malattia di Creutzfeldt-Jakob" (vCJD), il problema del rischio per l’uomo viene posto in maniera più decisa.

Al momento attuale, i dati epidemiologici e le risultanze sperimentali indicano la BSE come la prima encefalopatia spongiforme animale dotata, con ragionevole certezza, di un potenziale zoonosico. Qualche dubbio resterà ancora in quanto l’unica prova oggi disponibile per fugarlo è quella dell’infezione sperimentale nell’uomo, impossibile da realizzare. L’inoculazione per via intracerebrale o la somministrazione per via orale al topino di laboratorio, alla pecora e alla capra, effettuata utilizzando materiale cerebrale di bovini infetti, ha provato che la trasmissione della BSE è reale e possibile per le specie animali utilizzate nei vari esperimenti.

Secondo lo stato attuale delle conoscenze, la BSE è causata, al pari delle altre TSE, da una particella proteica in grado di replicarsi denominata "prione". Tale particella è particolarmente resistente al calore ed ai comuni disinfettanti. Sebbene l'origine e la trasmissione della malattia non siano state ancora totalmente chiarite, pare che la fonte dell'epidemia nel Regno Unito risieda nell'ingestione di farina di carne e di ossa contaminata, utilizzata come ingrediente di mangimi concentrati. La trasmissione sarebbe avvenuta tramite il riciclaggio di materia prima bovina ed ovina infetta, dalla quale si sarebbero prodotte le farine di carne ed ossa utilizzate nell'alimentazione dei bovini. Pare, inoltre, che un cambiamento nel metodo di fabbricazione di tali farine nel Regno Unito, con eliminazione del diclorometano e abbassamento della temperatura durante il processo industriale, abbia provocato la vasta epidemia di BSE ancora oggi in corso in Gran Bretagna.

Sperimentazioni per stabilire la dose d’attacco e la durata del periodo di incubazione sono state effettuate ed altre sono tuttora in corso. Trattandosi di una malattia a lenta evoluzione, con un periodo di incubazione della durata di anni, ogni esperimento diventa gravoso sia dal punto di vista scientifico che da quello economico.


La dose d’attacco per la trasmissione della BSE

Stimare la dose minima di agente infettante necessaria a trasmettere la BSE è sicuramente complicato: non esiste infatti un metodo biochimico per misurare la quantità di proteina prionica presente nel materiale biologico. Il titolo di attività può essere misurato solo attraverso una prova biologica inoculando o somministrando per via orale ad animali da esperimento quantità predeterminate di cervello provenienti da animali, affetti da malattia, in fase terminale.

Il "Rapporto sull’inchiesta sulla BSE nel Regno Unito", pubblicato dalla Camera dei Lord, analizza le sperimentazioni effettuate fino al 1999 da ricercatori inglesi, sulla dose necessaria per riprodurre la malattia in animali da esperimento, inclusa la specie bovina. Prende in esame anche le sperimentazioni condotte sull’impiego dell’aliquota d’attacco, vale a dire una sola somministrazione una tantum ad animali della specie bovina.

A causa dell’elevato costo e del lungo tempo richiesto per portare a termine l’esperimento sul bovino, i ricercatori preferiscono inizialmente ricorrere al biosaggio sul topino e subito dopo a sperimentazioni in campo su greggi di pecore e capre, pur considerando l’ostacolo rappresentato dalla "barriera di specie". Questa non è la sola complicazione, devono anche essere considerati altri fattori: Questi fattori e le incertezze che essi comportano al momento attuale, sono critici per l’interpretazione della prova standard nella sperimentazione sul topino e quindi per le conclusioni raggiunte riguardo alla dose infettante. Il modello sperimentale che impiega il topino, per stabilire quale sia la dose infettante ed il titolo del materiale infettante per la trasmissione della BSE, si rivela non rispondente.

Nel giugno del 1988 viene avviata una sperimentazione in 3 allevamenti diversi (a. pecore suscettibili alla Scrapie, b) pecore resistenti alla Scrapie, c) capre -specie che notoriamente ha una bassa suscettibilità alla Scrapie- per determinare: 1. se la BSE si comporta differentemente dalla Scrapie in questi animali; 2. se la trasmissione della BSE è influenzata dalla via di inoculo. Le pecore di entrambi gli allevamenti e le capre erano inoculate per via intracerebrale con 0,05 g, o oralmente con 0,5 g di materiale cerebrale infetto di BSE. La malattia si trasmette a entrambi i gruppi di pecore e alle capre indipendentemente dalla via di somministrazione. L’esperimento dimostra: 1. che la BSE si trasmette ad animali diversi dalla specie bovina che non sono recettivi alla Scrapie. 2. che la BSE viene anche trasmessa per via orale nelle pecore e nelle capre dimostrando che la quantità di 0,5 g di materiale cerebrale infetto è sufficiente a causare la malattia in queste specie animali. I risultati dimostrano anche che le due vie di inoculazione sono ugualmente valide per trasmettere la malattia, quando prima era comunemente accettato che la via intracerebrale era molto più efficiente di quella orale. Questo esperimento evidenzia che una piccola quantità di materiale infetto somministrato oralmente è sufficiente a causare BSE, perfino attraversando la barriera di specie. Questa informazione verrà poi vantaggiosamente utilizzata per calcolare la dose di attacco nell’esperimento sul bovino.

Nel gennaio del 1992 prende il via la sperimentazione "Effect of Oral Inoculum Dose on Attack Rate and Incubation Period of BSE in Cattle" presso il Central Veterinary Laboratori di Weybridge (Surrey). Con tale esperimento i ricercatori inglesi cercano di comprendere quanti bovini di un gruppo si ammalano di BSE, in seguito alla somministrazione per via orale di differenti dosi di materiale infetto; ed inoltre di stabilire l’eventuale correlazione tra la dose ed il periodo di incubazione. Con l’esperimento si puntava anche a dimostrare se l’aliquota d’attacco (quantità di materiale infettante somministrata) e/o il periodo di incubazione variassero in seguito alla singola o alla multipla esposizione. In teoria, lo studio della esposizione multipla avrebbe dovuto chiarire il problema legato all’ingestione di tessuti infetti con la dieta ricca di farine di carne ed ossa.

Quattro gruppi di bovini ricevono, per via orale, rispettivamente la dose di 1g, 10g, 100g, 100gx3 giorni consecutivi, di omogenato di cervello di bovino affetto da BSE. Gli animali vengono controllati clinicamente fino a quando non vengono a morte.

Già dal settembre del 1994 era evidente che perfino gli animali trattati con un grammo potevano ammalarsi. Una dose molto bassa è quindi sufficiente a causare la sindrome. Le implicazioni di questa affermazione, per il potenziale pericolo legato alla cross-contamination delle farine di carne, impone all’Inghilterra il bando totale delle stesse dall’alimentazione animale. La comunità Europea e l’Italia vietano l’utilizzo delle farine di animali solo dall’alimentazione dei ruminanti (DECISIONE CEE 381/1994 recepita con l’ORDINANZA MINISTERIALE MIN.SANITA' del 28-07-1994).

Molti ricercatori, tra i quali Watson, Bradley e Wells), sono veramente sorpresi che un solo grammo di omogenato di cervello, somministrato per via orale, possa trasmettere la malattia al bovino.


La diagnosi di BSE nel gruppo di animali inoculati con 1 g è confermata dagli esami istologici solo nel febbraio 1996 ed è riportata da varie riviste scientifiche.

Finchè i risultati di questo studio non sono stati pubblicati su riviste scientifiche, non sono stati mai riportati dalla stampa inglese nella loro interezza.

Lo studio della dose di attacco è continuato fino all’ottobre 1999 (durata dell’esperimento 7 anni e 8 mesi): tutti gli animali che avevano ricevuto la dose di 100g e quella di 100g per tre volte sono morti di BSE; il 70% dei bovini che avevano ricevuto 10g e 1g hanno contratto la malattia. Il periodo di incubazione in quei soggetti ai quali era stato somministrato 1g di materiale infetto andava da 45 a 71 mesi ed era più lungo di quello riscontrato nei soggetti che avevano ricevuto 100g per tre volte (34-42 mesi).

Il MAFF (Ministry of Agriculture, Fisheries and Food) ha commissionato successivamente altri esperimenti per confermare la trasmissione orale della Scrapie in pecore e capre, della BSE in pecore e capre, della BSE nel topino. Nessuna delle suddette sperimentazioni include la titolazione della dose infettante del topo. Inoltre il preciso titolo infettante non è conosciuto e pertanto diventa difficile trarre conclusioni e confrontare tali studi. Nel febbraio del 1995 il MAFF richiede una nuova sperimentazione per accertare la dose necessaria ad infettare i bovini. L’esperimento di una nuova dose di attacco parte nel febbraio del 1998. Anche in questo caso, quattro gruppi di bovini ricevono per via orale dosi di un campione analogo a quello del precedente esperimento, ma in quantità inferiori: da 1g, 0,1g, 0,01g, 0,001g. L’esperimento ripetuto non include un gruppo che prevede l’effetto cumulativo della dose (3x100g del primo esperimento). Tale esperimento è ovviamente ancora in corso.

Teoricamente potrebbe essere possibile che anche la più piccola dose determini la comparsa della malattia, ma, allungandosi a dismisura il periodo di incubazione, non sarebbe sufficiente il normale arco della vita dell’animale. Molti interrogativi rimangono: osservazioni sul campo permettono di affermare che solo alcuni bovini, di tutti quelli che hanno ricevuto dalla nascita una certa dose di alimento infetto, si ammalano e muoiono di BSE. Nelle pecore è ben chiaro che alcuni allevamenti (razze, linee genetiche) sono molto più resistenti di altri all’infezione di Scrapie ed è stato dimostrato che questa resistenza è geneticamente determinata. Nel bovino, lo studio del polimorfismo del DNA dimostra che non c’è apparente differenza genetica tra animali affetti e non affetti esposti allo stesso alimento infettante. La differenza sulla suscettibilità e resistenza di origine genetica sono escluse come ipotesi dalla bassa incidenza all’interno dell’allevamento. La spiegazione di Wilesmith è la seguente: nell’alimento ci sono "packets" di infezione contenenti agente infettante ad alto titolo; è una questione di rischio, se un animale consuma il pacchetto contrae la malattia. In realtà i frammenti di farina di carne e carne ed ossa sono macinati ad una misura massima di 3 mm e ben miscelati; ogni lotto di alimento è macinato e miscelato fino ad ottenere un alto livello di omogeneità. La teoria del "packet" è difficile da conciliare con questa evidenza.

La suscettibilità di alcuni animali a basse dosi di infettività, può essere ricercata in fattori individuali che influenzano probabilmente l’assorbimento dell’agente infettante, per esempio lesioni dell’orofaringe e del tratto alimentare.

L’Inquiry BSE Report riporta che bovini, nati dopo il bando delle farine animali dalla dieta per ruminanti, si sono ammalati di BSE. L’alimento dei bovini contaminato (per cross-contamination) con piccole quantità di farine di carne e di carne ed ossa potrebbe rivestire una grande importanza per la diffusione della malattia. E’ verosimile peraltro che la trasmissione verticale o laterale possa aver contribuito ad elevare il numero degli animali colpiti, nati dopo il bando.


Il quadro normativo. Norme attuative comunitarie e nazionali, relative all’impiego delle farine animali nei mangimi, per il contenimento delle Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili

I primi casi di animali infetti di BSE, del resto non diagnosticata, probabilmente vanno fatti risalire agli anni ‘70, ma solo nel 1986 viene riportato, in Gran Bretagna, il primo caso di un bovino con una "sindrome degenerativa delle cellule nervose Scrapie-simile". Nei primi mesi dell'88 si fa strada l’ipotesi che la farina di carne ed ossa (Meat and Bone Meal - MBM) sia la responsabile del contagio degli animali.

Mentre i ricercatori inglesi elaborano programmi di ricerca per determinare e dimostrare inequivocabilmente l'origine della malattia, le autorità governative, in maniera abbastanza rapida, nel luglio 88, vietano l'utilizzo di proteine animali nell'alimentazione dei bovini attraverso il decreto "The Bovine Spongiform Encephalopathy Order 1988" (cosiddetto "ruminant feed ban").

Solo nel Novembre 89 con il "the Bovine Offal (Prohibition) Regulations 1989" i materiali considerati responsabili della malattia vengono eliminati dal consumo umano. Tali materiali saranno definiti in seguito come Materiale specifico a rischio (SRM - Specified Risk Material).

Sempre in Gran Bretagna, nel settembre 90, gli SRM vengono vietati anche nell'alimentazione di tutti gli animali (sia da compagnia che da reddito) con il "the Bovine Spongiform Encephalopathy (No. 2) Amendment Order 1990". L'emissione di questa nuova norma, maggiormente restrittiva rispetto al ruminant feed ban, è dovuta all'emergenza di due fatti nuovi: l'annuncio della morte di un cane di razza Siamese per una forma di encefalopatia simile alla BSE, la Feline Spongiform Encephalopathy (FSE) e la dimostrazione della possibilità di trasmissione al maiale attraverso l'inoculazione intracerebrale di omogenato di cervello di bovino infetto.

Nonostante le misure prese, nel marzo ‘91 compare il primo caso di infezione in un bovino nato dopo l'entrata in vigore del "the ruminant feed ban" (cosiddetti BABs - Born After Ban); numerosi altri compariranno in seguito, ma è solo nel 1994 che in Inghilterra si comincia a sospettare che ci sia qualcosa che non va nel processo di eliminazione degli SRM e nell'agosto ‘94 viene evidenziata una contaminazione degli alimenti dei bovini da parte di materiale a rischio che porta ad un inasprimento della legislazione in materia. Per tale motivo una nuova data, quella del 1° agosto 1996 viene presa come riferimento per un nuovo bando delle sostanze proteiche; in pratica si assume che da tale data nessun bovino, in Gran Bretagna, sia venuto in contatto con alimenti contenenti proteine di origine animale. Vengono oggi definiti BABs gli animali nati dopo tale data.

Il numero totale di casi confermati di BSE nel Regno Unito aumenta da 10.091 nell'89 e 24.396 nel 90 e si arriva nel Marzo ‘96 alle 160.000 unità. Di questi, 41.000 sono nati dopo il bando del 1990. Oggi il numero dei casi complessivi confermati supera di poco 180.000.

A complicare il quadro, arriva nel 1996 la scoperta della trasmissibilità all'uomo. Fino al dicembre 1995, la BSE è considerata unicamente una malattia degli animali e, nel Regno Unito, viene permessa l'estrazione meccanica dei ritagli della carne (MRM - Mechanically recovered meat). Tale possibilità viene giustificata affermando che, essendo il midollo spinale già stato rimosso a livello di macello non vi sono rischi per il consumatore. Con la scoperta della nuova variante della CJD, diventa invece evidente che i controlli sull'effettiva rimozione del midollo spinale vengono tralasciati dal personale incaricato (che non ha le basi scientifiche per riconoscere l'importanza di questa operazione). Ed anche nel caso questi fossero stati eseguiti correttamente, i gangli spinali strappati dalla colonna potrebbero contenere il prione della BSE.

La scoperta della trasmissibilità all'uomo rappresenta la base per una drastica riforma dell'attività di controllo in Gran Bretagna ed è un notevole campanello d’allarme per gli altri paesi della Comunità Europea. Il problema BSE costringe la CE ad emanare norme che ripercorrono essenzialmente, in tempi successivi, le stesse tappe seguite dalla Gran Bretagna per tentare di bloccare la diffusione della malattia. E’ un susseguirsi di divieti che mirano a limitare la diffusione della BSE nella specie bovina e alla tutela della salute umana. Al di là dei divieti di esportazione di animali vivi e di carni dalla Gran Bretagna, vengono prese decisioni sul divieto dell’impiego di farine animali nell’alimentazione dei ruminanti prima e successivamente di tutti gli animali allevati per la produzione di alimenti. La CE vieta, da ultimo, anche la produzione di pet-food, qualora contengano proteine animali, in impianti che producono mangimi per animali allevati per la produzione di alimenti.

In Italia, il Ministero della Sanità recepisce le Decisioni comunitarie ed emana circolari esplicative talvolta più permissive (ad esempio, proponendo analisi per la ricerca della presenza dei frammenti ossei con l’applicazione di un metodo statistico, smentito a distanza di otto giorni, per designazione della positività di un lotto: 37 aliquote positive su 224 esaminate consentono di designare il lotto di mangime negativo) e talvolta più restrittive (esempi: a. estensione del divieto totale dai ruminanti agli erbivori; b. interpretazione di impianto = stabilimento).

E’ tutto un susseguirsi di Ordinanze, Decreti e circolari esplicative sull’impiego delle farine nei mangimi, sulla destinazione alle varie specie animali, sul rendering, sui materiali a basso rischio, ad alto rischio, a rischio specifico, sulle caratteristiche strutturali degli stabilimenti, sulle linee guida per le ispezioni e sulle modalità di prelievo dei mangimi per gli accertamenti analitici. I divieti succedutisi con notevole frequenza, risultano a volte contraddittori.

Vengono di seguito riportate le normative nazionali e comunitarie, relative all’impiego delle farine animali nei mangimi, per il contenimento delle Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili.



NORMATIVE NAZIONALI


DECRETO LEGISLATIVO n. 508 del 14-12-1992
Recepimento Dir. Condiglio CEE 90/667 del 27-11-1990 norme sanitarie per l’eliminazione, trasformazione di rifiuti di O.A.

DECRETO MINISTERIALE MIN. POL. AGR. E FOR 13-04-94
Metodi di analisi per il controllo ufficiale degli alimenti per animali.

ORDINANZA MINISTERIALE MIN.SANITA' del 28-07-1994
Misure di protezione per quanto riguarda l'Encefalopatia Spongiforme Bovina e la somministrazione, con la dieta, di proteine derivate da mammiferi.
Vieta la somministrazione ai ruminanti di mangimi contenenti proteine di mammifero.

ORDINANZA MINISTERIALE MIN.SANITA' del 30-03-1995
Modificazione all'ordinanza ministeriale 28/7/94 concernente "misure di protezione per quanto riguarda l'Encefalopatia Spongiforme Bovina e la somministrazione, con la dieta, di proteine derivate da mammiferi".

ORDINANZA MINISTERIALE MIN.SANITA' del 19-08-1996
Ulteriore modificazione all'ordinanza ministeriale 28 luglio1994 concernente "misure di protezione per quanto riguarda l'Encefalopatia Spongiforme Bovina e la somministrazione, con la dieta, di proteine derivate da mammiferi"........

ORDINANZA MINISTERIALE MIN.SANITA' del 30-04-1997
Modificazione all'ordinanza ministeriale 28/7/94 concernente misure di protezione per quanto riguarda l'Encefalopatia Spongiforme Bovina e la somministrazione con la dieta di proteine derivate da mammiferi.
Vieta la somministrazione ai ruminanti di mangimi contenenti proteine animali (anche la farina di pesce)

ORDINANZA MINISTERIALE MIN.SANITA' del 15-06-1998
Misure sanitarie di protezione contro le Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili mediante l'eliminazione dal consumo umano e animale del materiale specifico a rischio ottenuto da animali delle specie bovina, ovina e caprina ......

CIRCOLARE MINISTERIALE MIN.SANITA' 600.8 07-09-1998
Misure sanitarie di protezione contro le encefalopatie trasmissibili mediante eliminazione dal consumo umano e animale del materiale specifico a rischio ottenuto da animali specie bovina ovina caprina proveniente da stati membri......

ORDINANZA MINISTERIALE MIN.SANITA' del 16-07-1999
Modificazione dell'O.M. 28/7/94 concernente" misure di protezione per quanto riguarda l'Encefalopatia Spongiforme Bovina e la somministrazione con la dieta di proteine derivate da mammiferi".

DECRETO MINISTERIALE MIN. POL. AGR. E FOR.30-09-99
Orientamenti per l’identificazione al microscopio e la stima dei costituenti di origine animale nell’ambito del controllo ufficiale degli alimenti per animali.

DECRETO MINISTERIALE MIN. SANITA’ del 07-01-2000
Istituzione di un sistema nazionale di sorveglianza epidemiologica della BSE.

CIRCOLARE MINISTERIALE MIN. SANITA’ N.3 02-02-2000
Piano nazionale di vigilanza e controlli sanitari sulla alimentazione animale.

DECRETO MINISTERIALE MIN. SANITA’ del 29-09-2000
Misure sanitarie di protezione contro le TSE.

ORDINANZA MINISTERIALE MIN.SANITA' del 17-11-2000
Modificazione dell'O.M. 28/7/94 concernente "misure di protezione per quanto riguarda l'Encefalopatia Spongiforme Bovina e la somministrazione con la dieta di proteine derivate da mammiferi".
Vieta la somministrazione agli erbivori di mangimi contenenti proteine derivanti da tessuti animali ed inoltre la somministrazione a tutti gli animali di alimenti per animali ottenuti dai rifiuti di o.a.

CIRCOLARE MINISTERIALE MIN. SANITA’ N.1033 15-03-2001
Razionalizzazione delle attività di vigilanza e controllo ai sensi dell’O.M. 28.07.94 e successive modifiche nel settore della alimentazione animale in materia delle TSE.
1.ispezioni mangimifici 2.prelievo campioni 3.metodo di analisi

CIRCOLARE MINISTERIALE MIN. SANITA’ N.1147 23-03-2001
Razionalizzazione delle attività di vigilanza e controllo ai sensi dell’O.M. 28.07.94 e successive modifiche nel settore della alimentazione animale in materia delle TSE.
Sopprime i punti 2 e 3 della circolare n. 1033 del 15-03-2001.



NORMATIVE COMUNITARIE


DECISIONE DELLA COMMISSIONE DEL 28 LUGLIO 1989 relativa ad alcune misure di protezione contro l'Encefalopatia Spongiforme Bovina nel Regno Unito.

DIRETTIVA CONSIGLIO 667 del 27-11-1990
Norme sanitarie per l’eliminazione, la trasformazione e l’immissione in commercio di rifiuti di O.A. e la protezione degli agenti patogeni degli alimenti per animali di O.A. o a base di pesce.

DECISIONE DELLA COMMISSIONE DEL 14 MAGGIO 1992 recante misure di protezione contro l'encefalopatia spongiforme (BSE) nel Regno Unito.

DECISIONE DELLA COMMISSIONE CEE 382 del 27-06-1994
Sull'ammissione di sistemi alternativi di trattamento termico per la trasformazione di rifiuti origine animale derivanti da ruminanti, ai fini dell’inattivazione di agenti dell’encefalopatia spongiforme.

DECISIONE DELLA COMMISSIONE CEE 381 del 27-06-1994
concernente misure di protezione per quanto riguarda l'Encefalopatia Spongiforme Bovina e la somministrazione con la dieta di proteina derivata da mammiferi.
Vieta la somministrazione ai ruminanti di mangimi contenenti proteine di mammifero.

DECISIONE DELLA COMMISSIONE CEE 381 del 27-06-1994
concernente misure di protezione per quanto riguarda l'Encefalopatia Spongiforme Bovina e la somministrazione con la dieta di proteina derivata da mammiferi.

DECISIONE DELLA COMMISSIONE CEE 29 del 13-02-1995
che modifica la Dec. 94/382/ce sull'ammissione di sistemi alternativi di trattamento termico per trasformazione di rifiuti origine animale derivanti da ruminanti, ai fini inattivazione agenti BSE.

DECISIONE DELLA COMMISSIONE CEE 534 del 30-07-1997
sul divieto di utilizzare materiale a rischio per quanto concerne le encefalopatie spongiformi trasmissibili.

DECISIONE DELLA COMMISSIONE CEE 735 del 21-10-1997
relativa a talune misure di protezione per quanto concerne gli scambi di alcuni tipi di rifiuti animali di mammiferi.

DECISIONE DEL CONSIGLIO CEE 248 del 31-03-1998
che modifica la decisione 97/534/ce della commissione sul divieto di utilizzare materiale a rischio per quanto concerne le encefalopatie spongiformi trasmissibili.

DECISIONE DELLA COMMISSIONE CEE 129 del 29-01-1999
che modifica per la seconda volta la dec.94/381 concernente misure protezione per quanto riguarda l'Encefalopatia Spongiforme Bovina e somministrazione con dieta di proteina derivata da mammiferi.

DECISIONE DEL CONSIGLIO CEE 534 del 19-07-1999
relativa alle misure applicabili al trattamento di taluni rifiuti di origine animale per la protezione dalle Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili e che modifica la Dec. 97/735 della Commissione.

DECISIONE DELLA COMMISSIONE CEE 418 del 29-06-2000
che disciplina l'impiego di materiale a rischio per quanto concerne le Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili e modifica la Dec. 94/474/CE.

DECISIONE DEL CONSIGLIO CEE 766 del 04-12-2000
Relativa a talune misure di protezione nei confronti delle TSE e la somministrazione di proteine animali nell’alimentazione degli animali.
Vieta la somministrazione di proteine animali ad animali d’allevamento tenuti, ingrassati o allevati per la produzione di alimenti.

DECISIONE DELLA COMMISSIONE CEE 9/2001CE del 29-12-2000 in merito a misure di controllo necessarie per l’attuazione della decisione 2000/766/CE del Consiglio concernente misure di …..
Impone particolari restrizioni per la somministrazione di farina di pesce, proteine idrolizzate e fosfato dicalcico da ossa sgrassate agli animali diversi dai ruminanti.

DECISIONE DELLA COMMISSIONE CEE 165/2001CE del 27-02-2001 che modifica per quanto riguarda le proteine idrolizzate la decisione 2001/9/CE riguardante misure di…..
Vieta la produzione di mangimi (pet-food) per animali da compagnia, contenenti proteine animali, in impianti che producono alimenti per animali d’allevamento.



Le metodiche di laboratorio per la ricerca delle proteine animali nei mangimi

La metodica ufficiale di analisi delle proteine animali, adottata prima in Italia (D.M. 13 aprile 1994) e poi a livello della comunità europea (Direttiva 98/88/CE della Commissione del 13 novembre 1998; G.U. della Comunità Europea L 318/45 del 27.11.98), si basa sull’identificazione microscopica dei frammenti ossei e sul riconoscimento della classe di appartenenza (mammifero, volatile, pesce).

I frammenti ossei infatti si ritrovano inevitabilmente nelle farine animali in assoluto più usate e prodotte (farina di carne, farina di carne e ossa, farina di ossa, farina di pesce, …) e non possono sfuggire all’occhio attento e vigile di un analista esperto dotato di una certa esperienza. Va ricordato che la metodica microscopica vanta una sensibilità inferiore allo 0.1%.

Il metodo prevede, da una parte, l’osservazione allo stereomicroscopio della conformazione fisico-morfologica dei frammenti più grossolani (superiori a 5 mm) e, dall’altra, l’esame al microscopio ottico della struttura istologica delle particelle più fini.

Tale metodica nata a scopo merceologico e messa a punto dall’Ispettorato Centrale Repressione Frodi (Decreto Ministero delle Politiche Agricole e Forestali del 13 aprile 1994) è stata, con l’avvento delle TSE, estesa a livello sanitario per il controllo igienico-sanitario degli alimenti ad uso zootecnico.

L’adozione della metodica a livello sanitario è avvenuta nel 1996 in Italia attraverso la formazione di personale appartenente a tutti gli Istituti Zooprofilattici Sperimentali e all’Istituto Superiore di Sanità e la sua validazione mediante un circuito interlaboratoriale tra gli stessi Istituti.

La successiva modifica della metodica con il Decreto del 30 settembre 1999 ha generato, a livello nazionale, non poche perplessità e confusione in quanto ha posto un accento particolare sulla possibile "stima" quantitativa delle farine animali eventualmente presenti nei mangimi. La revisione del metodo, a cura sempre dell’Ispettorato Centrale Repressione Frodi, è stata effettuata allo scopo di uniformare l’analisi a livello nazionale e consentire una stima quantitativa più semplice da eseguire per il controllo merceologico dei prodotti (controllo del cartellino). Anche il DM 13 aprile 1994 permetteva una certa quantificazione dei frammenti ossei eventualmente presenti; essa veniva effettuata, dall’intero sedimento, attraverso l’isolamento allo stereomicroscopio dei frammenti ossei più grossolani e il loro successivo peso. Il Decreto del 30 settembre 1999 prevede invece una conta, attraverso il microscopio ottico, del numero relativo dei frammenti in tre preparati microscopici, su cinque campi per ognuno, e la successiva conversione percentuale in farine animali. Il problema relativo alla quantificazione è stato tuttavia chiarito dal protocollo d’intesa tra Ministro della Sanità e Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, prot. N. 577 del 21 febbraio 2001, che dettava espressioni del risultato di tipo qualitativo (presenza, assenza) e non permetteva nessuna tolleranza (un solo frammento cioè portava alla positività del campione).



La metodica ufficiale, estremamente precisa e sensibile, possiede tuttavia diversi limiti:

Senza considerare il tempo di osservazione microscopica, soprattutto per un operatore poco esperto e l’elevata tossicità dei solventi impiegati per l’estrazione.

Per tali motivi sono nati, a livello ancora sperimentale, diverse metodiche alternative:
La PCR sembra comunque in grado di affiancare o sostituire la metodica microscopica.

La legislazione vigente, inoltre, ha ulteriormente accentuato i limiti legati alla metodica ufficiale; è ovvio che non tutte le farine animali possono essere svelate da tale metodica; in particolare, le proteine idrolizzate e il fosfato dicalcico, permessi dalla Decisione CE 766 del 4 dicembre 2000, negli alimenti destinati ad animali diversi dai ruminanti, risultano comunque assenti, anche se sono presenti.

Per molte delle farine animali, l’unica possibilità analitica sembra attualmente l’uso della PCR; è in particolare il caso delle farine di sangue, delle farine di frattaglie di pollame, del plasma essiccato e di altri emoderivati.

Rimane da chiarire la metodica di analisi per le proteine idrolizzate, la gelatina e il fosfato dicalcico, per le quali i metodi sopra elencati risultano inefficaci.

Per le prime due (proteine idrolizzate e gelatina) la soluzione sembra essere la separazione cromatografica e la successiva rivelazione attraverso l’uso del HPLC.

Per il fosfato dicalcico, infine, la metodica attualmente consigliata per differenziarlo da quello di origine minerale è l’analisi della composizione minerale, coadiuvata eventualmente dalla presenza di fluoruri e di ferro, sempre presenti in quantità variabile nei fosfati di origine minerale.


L’IZSUM: le prove che si effettuano per la ricerca delle proteine di provenienza animale nei mangimi

L'Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell'Umbria e delle Marche (IZSUM) è un'azienda sanitaria pubblica, che opera nell'ambito del servizio sanitario nazionale garantendo al sistema veterinario delle Regioni Umbria e Marche le prestazioni e la collaborazione tecnico-scientifica necessarie per l'espletamento delle funzioni in materia di igiene e sanità pubblica veterinaria. La presenza sul territorio è assicurata dalla sede Centrale di Perugia e dalle Sezioni Diagnostiche di Ancona, Fermo, Macerata, Pesaro, Terni e dal Laboratorio di Ittiopatologia di Fano.

L'Istituto provvede a svolgere: il servizio diagnostico delle malattie degli animali e delle zoonosi; l'esecuzione degli esami e delle analisi ufficiali sugli alimenti ed il supporto tecnico-scientifico ai servizi di sanità pubblica veterinaria delle Aziende Sanitarie Locali; l'esecuzione degli esami e delle analisi necessari alla attività di controllo dell’alimentazione animale; la ricerca sperimentale nel settore della sanità animale, dell'igiene degli alimenti ed in materia di igiene degli allevamenti e delle produzioni zootecniche; l'effettuazione di studi, sperimentazioni e produzione di tecnologie e metodiche necessarie al controllo della salubrità degli alimenti di origine animale e dell'alimentazione animale; la sorveglianza epidemiologica nell'ambito della sanità animale, igiene degli alimenti di origine animale, igiene degli allevamenti e delle produzioni zootecniche; le verifiche sui rischi sanitari legati agli animali ed ai prodotti di origine animale. E’ dotato di laboratori di chimica, microbiologia, virologia, biotecnologie, istologia, microscopia elettronica.

Dal 1996 l’IZSUM applica la metodica microscopica "ufficiale" per la ricerca di farine animali negli alimenti ad uso zootecnico. L’Istituto si avvale in tal campo di due analisti, uno biologo e uno veterinario, di ampia e collaudata esperienza maturata nel corso degli anni, attraverso analisi di routine e lavori sperimentali.

Di recente inoltre l’IZSUM ha messo a punto, sebbene ancora in fase di ottimizzazione, una PCR in grado di individuare la presenza di proteine animali appartenenti a diverse specie ruminanti e non.


ANALISI MICROSCOPICA

L’analisi prevede, dopo macinazione su mortaio, un’estrazione in tetracloruro di carbonio o tetracloroetilene. Il sedimento ottenuto viene osservato prima allo stereomicroscopio e quindi al microscopio ottico:

Esame allo stereomicroscopio:
Si eseguono osservazioni incrociate del sedimento; con le pinze si estraggono i frammenti sospetti o non identificati e si osservano al microscopio ottico.

In caso di positività, si osserva anche il surnatante, per l’eventuale individuazione di ulteriori elementi diagnostici.

Le ossa dei mammiferi si presentano come frammenti spesso grossolani, di forma irregolare e prevalentemente tondeggianti, con margini arrotondati e superficie opaca; taluni sono bucherellati (ossa spugnose); il colore è bianco-crema o bruno chiaro.

Le ossa dei volatili si presentano invece come frammenti sfrangiati che si distinguono da quelli dei mammiferi per la forma prevalentemente allungata e per i margini taglienti; il colore è bianco- crema.

Ambedue i frammenti ossei risultano resistenti allo schiacciamento.
Le ossa dei pesci sono costituite da frammenti duri e/o friabili, opachi di forma variabile, ma prevalentemente allungate e appuntite di colore bianco o grigio; le ossa cartilaginee hanno invece forma piatta, laminare; sono semitrasparenti ed hanno superficie liscia e lucida, di colore a volte giallastro, a volte bianco latte con sfumature azzurre o perlacee.


Esame al microscopio ottico:

Per ogni campione, si effettuano almeno 5 preparati microscopici; focheggiando frequentemente, a causa di possibili differenze di spessore delle particelle, l’esame inizia con l’ingrandimento più basso (10 x), per avere una prima visione d’insieme, e si aumenta a 20-25 x (fino a volte a 40 x) per esaminare i dettagli delle strutture. Si osserva l’intero preparato microscopico.

Le ossa di mammifero appaiono come particelle opache o semi- trasparenti, di forma rotondeggiante, nella maggior parte delle quali sono visibili lacune rotonde o leggermente ellittiche, di 10-15 m m di diametro, che appaiono nere sul fondo grigio delle lamine ossee; nei frammenti più sottili, sono visibili i canalicoli, in forma di leggere linee nere non ramificate che partono dalle lacune dirigendosi in tutte le direzioni.

Le ossa dei volatili si differenziano da quelle dei mammiferi per le particelle ossee allungate, con bordi sfrangiati e con lacune oblunghe ed appiattite, particolarmente numerose, di dimensione pari a circa 5 x 10 mm.

Le ossa dei pesci si presentano come particelle opache o semitrasparente, di colore generalmente giallo paglierino, di forma prevalentemente allungata, talvolta cilindrica, con bordi netti, a differenza dei frammenti di volatile. In alcuni gruppi (aringa, acciughe), le lacune ossee sono fusiformi, mentre in altri (tonno) sono filiformi, di dimensione variabile da 1-3 x 10-30 µm. A differenza dei mammiferi e dei volatili, i canalicoli sono ramificati. In altri gruppi, ancora, le lacune sono assenti e nelle particelle ossee sono visibili solo leggere striature parallele ramificate, corrispondenti alle fibre di Sharpey. Le ossa cartilaginee appaiono disseminate di numerose lacune globulari minute prive di canalicoli. Le scaglie infine possono essere, nei Teleostei, sotto forma di lamine trasparenti, con caratteristica struttura a bande concentriche alternate chiare e scure, dovute alla calcificazione con disposizione ad anelli dello strato superficiale del tessuto connettivo. Negli Elasmobranchi, invece, le scaglie appaiono trasparenti e formate da un dentello conico che si prolunga in una larga piastra basale di forma rombica.

I vari frammenti dei pesci appaiono frequentemente disseminate e circondate da una polvere fina microcristallina, fortemente birifrangente, originata dalla frantumazione, durante i processi di lavorazione, dei microcristalli aghiformi della guanina contenuta nella pelle e nelle scaglie dei pesci.

Quali elementi accessori vanno ricordati l’eventuale presenza nel sedimento di peli, setole, corna, unghie, penne e piume.

Allo stereomicroscopio, i peli e le setole si presentano come frammenti di scapo in forma di sottili cilindri, interi, spezzati o distorti, bianchi, incolori o di varie gradazioni di bruno, con superficie liscia e lucida. Al microscopio ottico, appaiono come formazioni cilindriche di dimensione variabile; incolori o bruni, possono apparire cavi quando è visibile la zona interna midollare; il midollo è continuo nei grandi mammiferi mentre è settato nei roditori.

Le corna e le unghie sono allo stereomicroscopio delle lamine durissime di colore grigio, nero o ambra, traslucide con superficie sfaccettata o ondulata. Al microscopio ottico, si presentano come lamine opache o semi-trasparenti, percorse da striature parallele ondulate interrotte da linee di frattura trasversali.

Le penne sono rappresentate da frammenti grossolani di rachidi di forma tubulare appiattita, con bordi seghettati nei punti di inserzione delle barbe spezzate, e da frammenti di barbe in forma di sottili cilindri non seghettati; le piume talvolta intere sono fini formazioni ramificate con barbule filiformi disposte a pettine.


POLIMERASE CHAIN REACTION (PCR)

L’IZSUM ha recentemente disegnato coppie di primers per le seguenti specie: bovino, ovino-caprino, suino, equino, pollame (pollo, tacchino).

I primers sono coppie di sequenze oligonucleotidiche ottenute per sintesi chimica, complementari ai tratti del DNA bersaglio cui si legano, delimitando il segmento da amplificare e dettando pertanto la specificità della reazione. Il primo primer (forward o F) funge da segnale di inizio per la polimerasi che lega il gruppo fosfato in posizione 5’ del nucleotide all’ossidrile in posizione 3’ del nucleotide del primer, allungandolo in direzione 3’ ® 5’.

L’altro (reverse o R) è stato disegnato unico per tutte le specie ed agisce in direzione opposta completando il raddoppio di ogni singola catena del DNA.

Il DNA viene isolato dai mangimi attraverso un’estrazione a caldo in soluzione tampone, per una notte intera e successiva purificazione mediante gel di silice. Dopo ulteriore incubazione e lavaggi con tampone, etanolo ed acetone, il pellet viene risospeso in TE I X pH 8 ed il surnatante viene raccolto traferito in vials e conservato a -20°C fino all’amplificazione.

L’amplificazione è condotta in Termal Cycler usando una quantità di 25 m l di soluzione di reazione contenenti 10 pmol di ciascun primer, 200 m M della mix dNTP’s, il PCR standard buffer e 2,5 U di Taq Polymerase.

L’amplificazione consiste in una ripetizione ciclica di tre fasi: Dopo un step iniziale di denaturazione a 94°C per 5 minuti, è stata quindi adottata un’amplificazione di 35 cicli di 94°C per 30 s; 53°C per 30 s; e 72°C per 30 s, con un’estensione finale a 72°C per 3 minuti.

I prodotti amplificati sono sottoposti ad elettroforesi su gel orizzontale di agarosio al 4% TAE 0,5 X e visualizzati dopo colorazione con bromuro di etidio.

La PCR permette di amplificare porzioni (D-loop region) caratteristiche del DNA mitocondriale (ad esempio, 154 paia di basi per il bovino e 108 per l’ovino).

Oltre al mangime in esame, vanno sempre seminati campioni positivi (DNA estratto da farine prodotte in laboratorio) e campioni negativi (acqua sterile trattata in autoclave).


L’utilizzo delle farine di carne nei mangimi ed il "Rendering"

La razione degli animali allevati per la produzione di alimenti, compresi gli erbivori, è costituita da un’elevata quota proteica. Le proteine più a buon mercato sono costituite dalle farine di carne ed ossa, ottenute principalmente dagli scarti di macellazione di bovini e suini, che rappresentano un’ottima fonte di integrazione proteica nella dieta dei ruminanti per la presenza di aminoacidi solforati. I trattati di alimentazione animale, già dalla fine degli anni ’70 consigliano un’integrazione del 3 - 3,5% di farine di carne nei mangimi bilanciati per l’alimentazione della bovina da latte e di circa il 2 % in quelli per i bovini da carne.

Per i motivi sopra ricordati, insieme alle moderne pratiche zootecniche, è fiorita la cosiddetta industria del rendering. Tale pratica permette il riciclaggio dei prodotti di scarto della macellazione (oltre il 50% del peso vivo del bovino risulta non edibile dall’uomo) risolvendo al tempo stesso tutti i problemi legati allo smaltimento dei rifiuti.

Il Process Rendering, prima che le misure di controllo della BSE fossero introdotte, ha utilizzato non solo gli scarti di macellazione, ma anche le carcasse di animali morti naturalmente.

Il Process rendering è il trattamento di fusione delle frattaglie e di altre parti di scarto per ottenere le farine di carne ed ossa ed il sego. Questa operazione è realizzata mediante cottura a secco e successiva separazione della frazione solida (ciccioli) dalla frazione liquida che si è sciolta (sego e grasso animale). I ciccioli vengono poi centrifugati, pressati, trattati con solvente per estrarre più sego, prima di ottenere la farina di carne ed ossa. Quest’ultima, prima che fossero introdotte le misure di controllo della BSE, veniva usata nell’alimentazione animale e come fertilizzante; il sego ha invece una vasta varietà di usi: dai prodotti farmaceutici al cibo per animali da compagnia, dall’alimentazione per animali zootecnici ai cosmetici, fino all’impiego nell’alimentazione umana. Nel processo di rendering possono essere utilizzate due distinte metodiche: il Batch rendering e il Continous rendering. Il primo è il metodo tradizionale per mezzo del quale i sottoprodotti della macellazione sono cotti a secco in un recipiente chiuso, sotto pressione o in normali condizioni atmosferiche. Il Batch rendering è stato oggi sostituito da un processo di cottura a secco continua (Continous rendering) che è il sistema più diffuso nel mondo. Il processo industriale comprende le seguenti fasi: Stork Duke Cookers, Stord Bartz Driers, Carver-Greenfield Systems, e Protech Systems.

Il trattamento termico utilizzato durante il processo di rendering è sufficiente a sterilizzare il prodotto nei confronti delle forme virali e batteriche, incluse le spore, ma non è in grado di inattivare completamente l’agente eziologico della Encefalopatia Spongiforme Bovina. Quale fattore di abbattimento del rischio, a partire dal 1997, si è gradualmente introdotto negli impianti di lavorazione degli scarti di macellazione (rendering) l’obbligo di trattamenti termici, in condizione di Temperatura, Pressione e Tempo, atti ad abbattere, ma non ad inattivare completamente, la carica infettante eventualmente presente negli scarti di macellazione da trattare.

Il sistema di rendering italiano attuale rispecchia le Decisioni UE 449/96 e 534/99 e prevede, per i rifiuti animali, misure piuttosto restrittive, presumibilmente sufficienti ad inattivare anche l’agente eziologico di BSE. Un unico trattamento termico che raggiunge i 133°C per 20 minuti senza interruzioni, con una pressione prodotta mediante vapore saturo superiore o uguale a 3 bar, minimizza il rischio BSE, qualora gli scarti lavorati provenissero da un animale infetto.

Il problema BSE - farine animali è nato ufficialmente nel Regno Unito, all’inizio degli anni 80, per la somma di due fatti: il rendering abbandonò l’uso del diclorometano (i verdi ne denunciarono la tossicità) nella sgrassatura delle carcasse prima del trattamento a caldo; la zootecnica introdusse, come pratica corrente, le proteine animali nella dieta delle bovine da latte. Ciò avrebbe favorito il "salto della barriera di specie" del prione dalla pecora al bovino.

Le farine di origine animale sono definite dalla Comunità Europea "proteine animali trasformate". Tale definizione si riferisce a tutti gli animali terrestri e comprende diversi materiali di partenza: sangue, carne, carne ed ossa, pesce, ossa sgrassate, zoccoli, corna, frattaglie. Essi sono classificati: 1. a basso rischio, 2. ad alto rischio, 3. a rischio specifico. Gli impianti (render) che preparano dette farine possono trattare materiali a basso rischio od a basso ed alto rischio elencati nel D. Lgs. n. 508/92 e dalla Decisione CE del 27 dicembre 2000. Il "materiale a rischio specifico" si riferisce solo alla BSE ed ha come unico destino la distruzione.

Il potenziale rischio di diffusione del prione della BSE attraverso le diverse farine di origine animale presenti sul mercato italiano dopo l’entrata in vigore delle succitate normative comunitarie (Decisioni UE 449/96 e 534/99), considerando la loro composizione ed i trattamenti subiti, è estremamente basso, anche se nessuno oggi può dire completamente assente.

Alcune ricerche escludono ogni rischio per le farine ottenute da sangue defibrinato e per quelle derivate da materiale a basso rischio sottoposto ad idrolisi non enzimatica (che attacca solo siti specifici), ma chimica, a caldo in ambiente altamente alcalino che agisce su tutte le proteine. Si ritiene che l’idrolisi chimica sia capace di inattivare il prione, indipendentemente da quanto imposto dalla normativa in vigore (peso molecolare inferiore a 10.000 Dalton) nel materiale di risulta.


La situazione dei mangimifici italiani dopo il 1994: Il fenomeno della cross-contamination

Gli stabilimenti di produzione dei mangimi, in Italia, sono generalmente orientati alla produzione di alimenti per tutte le specie di animali zootecnici e in molti casi anche per animali da compagnia (pet-food). Producono numerose linee in modo da coprire tutto il mercato con alimenti zootecnici destinati a tutte le produzioni (latte, carne, uova) e a tutte le fasi di allevamento (svezzamento, prima fase di crescita, seconda fase di crescita, ingrasso, finissaggio). Producono inoltre mangimi medicati, mangimi con integratori di crescita, talvolta mangimi "biologici".

L’azienda mangimistica comprende molto spesso un solo stabilimento ed una sola linea di produzione; al massimo due, di cui una ridotta, deputata esclusivamente alla produzione di mangimi medicati (mangimi con l’aggiunta di chemioterapici, coccidiostatici, antielmintici, etc.).

Si intuisce immediatamente quanto possa essere frequente la contaminazione di un prodotto con le sostanze impiegate per la produzione dell’alimento fabbricato immediatamente prima, utilizzando lo stesso impianto. Il fenomeno della cross contamination, pur essendo sempre indesiderato, non era poi così grave prima dell’allarme BSE, causando solo lievi variazioni nel bilanciamento dei costituenti del secondo prodotto o dei suoi integratori. Poteva diventare pericoloso per la salute degli animali e per quella del consumatore nel caso in cui fosse stata utilizzata la stessa linea produttiva per mangimi medicati, senza l’applicazione delle norme di Buona Pratica di Fabbricazione. Al fine di ridurre il fenomeno della cross contamination, il ciclo di ripulitura dell’impianto, da effettuarsi sempre al termine della fabbricazione di un prodotto destinato specificamente ad una specie animale e contenente sostanze a rischio per altre specie animali, dovrebbe comprendere una fase di pulizia accurata del miscelatore, dei silos di raccolta ed ove possibile delle coclee e degli elevatori. Inoltre sarebbe bene effettuare più cicli produttivi per la fabbricazione di prodotti destinati alla stessa specie animale, ma senza principio attivo (antibiotico, sulfamidico, coccidiostatico) utilizzato nella prima produzione.

Tutti i mangimifici, prima dell’avvento della BSE, utilizzavano quale fonte di integrazione proteica e minerale dei mangimi, la farina di carne ed ossa di mammiferi e/o di volatili e la farina di pesce. Con la diffusione dell’Encefalopatia Spongiforme Bovina sono iniziati notevoli problemi per i produttori di mangimi.

Innanzi tutto economici: per fabbricare un mangime bilanciato con le stessa percentuale di proteine vegetali senza poter ricorrere a quelle animali, è per prima cosa più dispendioso. Tutti i mangimifici sono dovuti intervenire sulle formule dei mangimi per ruminanti.

Dal luglio 1994 in Italia è vietato l’uso di farine animali di mammiferi nella produzione di mangimi per ruminanti; la norma viene modificata in modo sostanziale nel ’97, nel ’99 e nel 2000. Al momento, in seguito alla Decisione del Consiglio 2000/766/CE che sovrasta l’O.Min.San. 17/11/2000, per il periodo compreso dal 01.01.2001 e fino al 30.06.2001, è vietata la somministrazione di proteine animali trasformate a tutti gli animali allevati per la produzione di alimenti, ad eccezione di farina di pesce, proteine idrolizzate, fosfato di calcico ottenuto da ossa sgrassate, latte o prodotti lattieri; sostanze utilizzabili solo nei non ruminanti, previa autorizzazione delle ASL o delle Regioni.


Possibili azioni preventive da mettere in atto a livello di mangimificio nei confronti del rischio BSE

Nel 1988 è stato messo in evidenza il ruolo che le farine di carne ed ossa avevano nella trasmissione della BSE. Come è stato già ricordato, la cause della pericolosità dell’impiego delle farine di carne nell’alimentazione dei bovini, sono da imputare essenzialmente a due fatti: 1) una modificazione attuata nel procedimento di rendering: l’abbassamento della temperatura e il cambiamento del procedimento di estrazione dei grassi ha provocato un difetto di inattivazione dell’agente patogeno della BSE; 2) l’industria del rendering impiegava, per la fabbricazione delle farine animali, anche i bovini a rischio specifico e i cadaveri degli animali morti naturalmente, oltre ali scarti di macellazione non privati degli organi a rischio.

Il divieto di utilizzo delle farine dei mammiferi per l’alimentazione dei ruminanti (1994), esteso alla farina di volatili e di pesce (1997), si rivelava insufficiente per il contenimento della malattia, in quanto negli stabilimenti di produzione dei mangimi si verificavano contaminazioni crociate tra alimenti per animali monogastrici (maiali e volatili) ed alimenti per ruminanti. Ciò è comprovato dalle molte positività alle analisi di laboratorio per la ricerca della presenza di frammenti ossei nei mangimi per bovini e da una sperimentazione effettuata nel 1998.

Pur nel rispetto della normativa, i produttori di mangimi, si trovavano loro malgrado, spesso coinvolti in denunce per violazione della normativa vigente sull’impiego di proteine animali, a causa della presenza di tracce di farine di carne nei prodotti destinati alla dieta dei ruminanti.

Tenendo conto di quanto si è verificato nell’industria del rendering e dei possibili pericoli di cross contamination nel processo di preparazione dell’alimento per bovini, l’industria mangimistica, aveva l’obbligo, anche prima dell’imposizione normativa, di attuare una serie di azioni preventive per minimizzare il rischio di diffusione della BSE con l’alimento prodotto. Elenchiamo alcune possibilità che aveva e/o ha il produttore di mangimi per prevenire la diffusione della BSE:

Conclusioni

La valutazione del rischio che corre il consumatore di carne di bovini che sono stati alimentati con mangimi contenenti farine di carne ed ossa è impresa molto ardua, allo stato delle attuali conoscenze scientifiche. Non è ancora noto l’agente eziologico, le sue modalità di replicazione, tutte le possibilità e vie di trasmissione da un animale all’altro ed all’uomo, non si sa quale sia la minima dose infettante, il tempo di esposizione, le razze eventualmente più predisposte ad infettarsi. Questi e molti altri sono ancora i dubbi irrisolti dai ricercatori.

Il paese responsabile della comparsa e della diffusione della BSE è anche quello che ha potuto studiarla più a fondo. Per comprendere questa malattia occorrono tempi lunghissimi. Basti ricordare che, mentre molte malattie virali o batteriche hanno un periodo di incubazione di qualche giorno, la BSE ha un periodo di incubazione di anni. Qualsiasi sperimentazione avrà dunque una durata lunghissima: il primo esperimento effettuato dai ricercatori inglesi sulle dosi infettanti ha avuto la durata di 7 anni e 8 mesi e pur non avendo stabilito quale sia la dose minima infettante, ha dimostrato che il periodo di incubazione è legato alla quantità di materiale infetto assunto dal bovino e che la somministrazione di 1g di materiale infetto proveniente da un animale in fase terminale di BSE, somministrato oralmente a 10 bovini, ha evidenziato dopo oltre 4 anni la malattia in 7 di essi.

Due fatti sono ormai accettati dalla maggior parte dei ricercatori: la diffusione della BSE dovuta all’utilizzo di farine animali quali integratori della razione e la trasmissibilità interspecifica all’uomo per via alimentare (vCJD).

Vanno ora considerati il pericolo ed il rischio. Nel nostro caso, il pericolo è un evento dannoso per la salute del consumatore; il rischio è rappresentato dalla probabilità che il pericolo si verifichi. Indubbiamente, il pericolo è estremamente grave: al momento attuale, i dati epidemiologici e le risultanze sperimentali indicano che il prione della BSE può determinare la malattia che nell’uomo va sotto il nome di vCJD. Il rischio potrebbe essere basso, ma difficilmente potremo affermare di averlo azzerato, pur avendo adottato tutte le precauzioni possibili affinché il pericolo non si verifichi. Oggi, finché non ne sapremo di più sul periodo di incubazione, sulla possibilità di infettare bovini che non manifestano ancora sintomi, sul titolo infettante, la quantificazione del rischio è pressoché impossibile.

Cerchiamo ora di prendere in considerazione gli eventi che devono verificarsi affinché il pericolo si possa manifestare: Da quanto detto il rischio dovrebbe essere molto basso, ma, essendo il pericolo enorme, sembra giusto mettere in atto il "principio di massima precauzione" e, nel dubbio, adottare i provvedimenti più restrittivi, cosa verso la quale le normative di settore stanno finalmente orientandosi.

A titolo esemplificativo si potrebbe tentare un confronto con una malattia infettiva (AIDS) di recente diffusione ad elevatissimo pericolo, ma, oggi, a rischio controllabile. Negli anni 80 le conoscenze scientifiche erano scarse, la maggior parte degli scienziati pensava che si trasmettesse attraverso il sangue (trasfusioni, aghi infetti ecc.) ed i rapporti sessuali fra omosessuali, oltre che per via verticale (madre-figlio); c’era solo un remoto dubbio sulla possibilità di contagio fra eterosessuali. Anche in quel caso fu applicato il principio di massima precauzione (tutti i rapporti sessuali a rischio –anche fra eterosessuali- protetti) e queste modalità hanno fatto sì che la malattia, ad esclusione di alcune popolazioni del terzo mondo, sia rimasta contenuta entro confini ben definiti e limiti accettabili.


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